Dall’esilio
di Piervincenzo Di Terlizzi
Gli spazi sono vuoti, le telefonate deviate su un cellulare, i server collegati a firewall per il lavoro agile; oppure, al massimo, in qualche stanza si trova lo stringato numero di persone che garantisce quello che, con un’espressione che ha in sé il sapore dell’ossimoro, è chiamato contingente minimo.
La scuola –tutta la scuola italiana- si è spostata altrove, per circostanze esterne ed eccezionali: la scuola è dunque fuori dal suo suolo usuale, è in esilio.
Alcune storie di esilio sono fondative nella cultura occidentale. Forse hanno qualcosa da dirci oggi; in esse possiamo trovare tracce per leggere quello che abbiamo fatto nei giorni scorsi, quello che stiamo facendo, quello che faremo.
L’esilio è tentazione: la narrazione di riferimento è quella dei quaranta giorni nel deserto di Gesù (a sua volta ricollegata al biblico esilio di Israele).
E tentazioni, in questi giorni, ce ne sono: c’è quella della disperazione (in senso etimologico: l’allontanamento da quanto si sperava), che guarda a quello che si è smarrito e non sarà più (in questo senso consideriamo tutti i tentativi di ricondurre la narrazione di questo periodo alle categorie normali del calendario scolastico: la ripresa, e poi le verifiche, i voti, le promozioni, categorie ancorate a scansioni concrete di azioni nel tempo che ora non sono più percorribili; su questo si veda l’ottima serie di riflessioni di Stefano Stefanel); c’è quella, opposta, della superefficienza (ad esempio, l’ansia di riempire il tempo con le attività online, di rispondere a tutto e a tutti fino a perder la cognizione del proprio tempo). In nessuna di queste, e di altre reazioni, c’è qualcosa, in sé, di sbagliato (altra tentazione: quello che è giusto; quello che è sbagliato; si fa così; non si fa così): le tentazioni sono fatte per esserci, per riconoscerle, e per imparare qualcosa da esse, una volta che le si sono affrontate. Ne va fatta memoria.
L’esilio lo si può affrontare, e accade infatti, come Robinson Crusoe: creando, con le proprie mani, un mondo nuovo, attingendo alle proprie risorse. È ciò che sta accadendo con tutte le esperienze di didattica online sulle quali tutte le scuole si sono cimentate.
Si tratta di un atto che è, all’inizio, di sopravvivenza: ed in effetti è così, perché ha come oggetto il cuore dell’esperienza scolastica, che è, appunto, l’insegnamento-apprendimento; un atto che, come Robinson, si comincia a mani nude, da quello che si ha e come lo si ha, mettendo insieme le cose un pezzo per volta, riflettendoci sopra continuamente, e, soprattutto, sbagliando, sbagliando molto (su questi temi, si vedano le belle riflessioni di Ariella Bertossi, e Paolo De Nardo, apparse nei giorni scorsi).
Dopo la sopravvivenza, Robinson fa, tra le altre, un’altra esperienza, che è quella del nuovo mondo, rappresentata, per lui, dall’incontro con Venerdì: anche per la scuola ci sarà un’antropologia nuova da esplorare, un Altro cui riconoscere nella quotidianità una cittadinanza (pensiamo ad esempio allo smartphone, che è uno dei mediatori didattici indispensabili, oggi).
C’è un altro, meno noto dei due precedenti, esilio che ha qualcosa da dirci, a mio avviso, e sul quale vorrei spendere qualche riflessione conclusiva: penso all’esilio di Filottete, raccontato ad esempio da Euripide, nell’omonima tragedia.
Filottete vive in esilio, lontano da Troia, dove vorrebbe essere e combattere; come (e prima, in effetti ne è il modello) Robinson se la cava con quello che ha, nel suo caso il suo arco che gli consente di procurarsi da vivere. Le sue giornate sono tormentate da una piaga che diventa, all’improvviso, purulenta: quando ciò accade, egli perde forze e delira.
Filottete richiama un’altra dimensione dell’esilio: la fragilità. Siamo in esilio per un motivo che non possiamo ignorare, che fa parte dei nostri pensieri, delle nostre preoccupazioni e, in casi drammatici, come quello raccontato dalla collega bergamasca qualche giorno fa, delle nostre esperienze. L’esilio è –e resta, con tutta la buona volontà e la professionalità di tutti- un trauma e uno stare nella precarietà, un gesto di continua resilienza. Per quello che ci circonda, per quello che ci potrebbe accadere, per la precarietà della connessione, per l’esaurimento dei Giga, per lo sfinimento della pazienza, per quelli che non riusciamo a raggiungere. Filottete è un nobile che veste di stracci, si procura il cibo ogni giorno e avverte in ogni momento la precarietà: è la nostra condizione. E pure di questo va fatta memoria.
C’è, però, un’altra cosa, nella vicenda di Filottete. Alla fine, egli viene ricondotto a Troia, a combattere, da una piccola delegazione di eroi, che vanno a parlargli. Uno è Ulisse: è la voce della furbizia, e Filottete non lo ascolta. Se volete, è un’altra tentazione, che attraverseremo, quella del tutto-come-prima.
Ma l’altra voce, che Filottete ascolta, è quella del giovane Neottolemo, che gli racconta la verità, non cerca le vie furbe, e che costruisce così con lui una relazione.
I giovani, la loro verità, la relazione. In fondo, sta tutto lì.