LETTERA A UNA STUDENTESSA. La scuola come σχολή
LETTERA A UNA STUDENTESSA
La scuola come σχολή
di Rossella De Luca
Cara Paola,
ti scrivo questa lettera perché sono rimasta profondamente colpita, durante il nostro ultimo colloquio, non tanto da quanto hai affermato, quanto dalla passione (che poi significa anche sofferenza) con cui hai espresso, parlando in qualità di rappresentante e quindi a nome della tua classe, il disagio e il disappunto verso un percorso di studi che – a vostro giudizio – non vi ha adeguatamente preparato ad affrontare i test universitari. Molti di voi, già a partire dallo scorso anno, frequentano costosi e impegnativi corsi di preparazione ai test di accesso alle facoltà scientifiche, tra qualche mese tanti avranno già superato (prima ancora di conseguire il diploma) le selezioni, quasi tutti vi sentite ormai fuori dal liceo, proiettati in un mondo che ritenete più stimolante e interessante, rispondente ai vostri bisogni e alle vostre aspettative.
Da qui la critica verso i docenti, verso il PCTO, verso l’istituzione tutta.
Da dirigente attenta e interessata alle richieste, alle esigenze e alle opinioni delle studentesse e degli studenti, entrerò solo in parte nel merito, ma lo farò partendo da un altro punto di vista e soprattutto rivolgendomi, attraverso te, a tutta la classe. In ogni singolare che per errore adopererò… leggi un plurale.
Quello che mi lascia più perplessa nell’intera vicenda è l’idea che voi ragazzi in questi anni avete maturato della scuola. Cos’è la scuola? Il termine “scuola” deriva dal greco σχολή (scholé) che, non sorprenderti, significa “ozio”, “riposo”: la scholé era proprio il tempo in cui ci si riposava dalle fatiche della vita quotidiana per dedicarsi allo studio, al ragionamento. In latino (quella materia che tanti di voi ritengono inutile, perché oggi “non serve”) avrai sicuramente studiato la contrapposizione tra l’otium, il tempo che solo pochi privilegiati potevano permettersi di dedicare a se stessi (e dunque alla riflessione o allo studio), e il negotium, l’occuparsi degli affari familiari, sociali o economici.
La scuola “non serve”, nel senso che non è serva e non deve essere asservita. Ma siamo poi sicuri che la scuola debba servire? E soprattutto a cosa dovrebbe servire? A promuovere cultura, termine che deriva dal verbo latino “colo”, che significa “coltivare”: le nozioni, forse, ma soprattutto la convivenza e in particolare una capacità di leggere il mondo. Non a caso, la scuola è il nostro primo — e forse anche ultimo — luogo di aggregazione, comunità, condivisione… e quindi è indispensabile in un’epoca di profonde solitudini (di “passioni tristi”, direbbe M. Benasayag) come la nostra.
E’ un momento difficile, Paola. Lo è per tutti, ma lo è soprattutto per voi giovani, che avete un disperato bisogno di condividere, socializzare, comunicare, crescere…
Questo riusciamo a comprenderlo benissimo, ma nello stesso tempo cerchiamo e dobbiamo considerare i nostri studenti non “vasi da riempire”, ma “fiaccole da accendere”, esattamente come sosteneva Plutarco circa 2000 anni fa, disapprovando una scuola e dei maestri che caricavano sulle spalle e nelle teste dei giovani un’eccessiva ed eterogenea quantità di contenuti e nozioni, anziché svilupparne il libero desiderio e l’autonoma capacità di apprendere. Anche le discipline non sono altro che una chiave interpretativa e lo studio (sempre etimologicamente) è inclinazione, interesse, desiderio.
Quando noi tutti (i professori, ma anche io), in risposta alle tue sollecitazioni (rivendicazioni?), abbiamo sentito il bisogno di parlarti dei nostri non straordinari insegnanti del liceo, non intendevamo rivolgere una critica verso i nostri docenti poco capaci (che all’epoca il rispetto aprioristico che si nutriva verso la figura del professore non ci faceva nemmeno percepire come tali), ma era proprio la conferma che – perdonaci la presunzione – attraverso modalità non coercitive e accumulative, essi avessero saputo costruire “teste ben fatte”, piuttosto che “ben piene”, per dirla con E. Morin. Traspariva dalle nostre parole l’orgoglio di avercela un po’ fatta da soli e di essere divenuti dei professionisti nonostante (ma oggi penso anche grazie a) loro, quei docenti che ricordiamo tutti con grande affetto, anche quelli che ormai non ci sono più, soprattutto quelli che più ci facevano penare.
La scuola oggi (e soprattutto “a distanza”), oltre alle competenze cognitive (per intenderci quelle alfabetico-funzionali, linguistiche, matematiche, scientifiche, digitali), deve cercare di promuovere quelle che vengono definite “non cognitive skills”, ossia aspetti individuali quali la responsabilità, l’autonomia (anche nello studio e nella rielaborazione), l’apertura mentale, l’autoconsapevolezza, l’autoefficacia, l’autodeterminazione, una mentalità dinamica, la capacità di lavorare in gruppo, il rispetto dei tempi e la puntualità nelle consegne. A questo (non ad aggiungere altri contenuti disciplinari aderenti all’indirizzo richiesto, in preparazione ai test di accesso alle facoltà che prevedono il numero chiuso, come tu ritieni) “servono” ad esempio i PCTO (che, come appunto indica l’acronimo, sono “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”), dal momento che proprio queste skills, se sviluppate durante il periodo scolastico, possono avere un effetto positivo sull’apprendimento, sulla scelta dei percorsi (che ovviamente sono individuali ed eterogenei) e nel completamento degli studi, nell’ingresso al lavoro, sulla salute mentale e fisica, sul senso civico e la cittadinanza attiva.
La scuola, ci ricorda J. Bruner, rappresenta “l’ingresso nella vita della ragione. È certamente vita essa stessa e non mera preparazione alla vita; tuttavia è uno speciale tipo di vita, accuratamente programmato al fine di sfruttare al massimo quegli anni ricchi di possibilità formative che caratterizzano lo sviluppo dell’homo sapiens e che distinguono la specie umana dalle altre. La scuola non dovrebbe quindi limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia e con l’esperienza quotidiana. Essa è quella particolare comunità in cui si fa l’esperienza di scoprire le cose usando l’intelligenza, ed in cui ci si introduce in nuovi e mai immaginati campi di esperienze” (Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture).
La scuola va goduta, Paola, la scuola va pienamente vissuta… come σχολή, in cui ci si impegna insieme, all’interno di una comunità di apprendimento, e si impara ad usare la propria intelligenza per riuscire a scoprire nuovi mondi e ignoti orizzonti. La scuola non è un addestramento, ma una fucina di vocazioni. La scuola non è solo un luogo fisico dal forte valore simbolico, ma anche un luogo interiore che ciascuno studente è chiamato a costruire dentro di sé. La scuola non può essere concepita come un male necessario (a volte ho l’impressione che soprattutto coloro che stanno seguendo corsi paralleli di preparazione ai test universitari concepiscano gli ultimi due anni del liceo esclusivamente come un ponte verso il diploma, non come due anni bellissimi e intensi da vivere e ricordare per tutta la vita), perché non c’è fretta, Paola… non c’è fretta di crescere, dobbiamo prima di tutto imparare a vivere ogni tappa per quello che è, per quello che può e deve darci, dobbiamo imparare che il risultato di un rapporto non è garantito finché non vi è reciprocità, e invece di disprezzare le cose (le cose non esistono, Paola, così come non esistono le persone: esistono gli occhi con cui noi guardiamo e vediamo le cose e le persone), invece di disdegnare le esperienze attraverso le quali con passione cerchiamo di in-segnarvi (ossia di lasciare un segno in ciascuno di voi, ma anche di cercare un appiglio per riuscire a portar fuori il meglio da ciascuno di voi), dovreste cominciare a guardarle con occhi diversi, affinché attraverso quelle stesse esperienze ciascuno possa cominciare con consapevolezza a prendere contatto col mondo per trovare la propria strada.
Un abbraccio, Paola! Un abbraccio a tutti voi.