Febbraio 26

Dove va il futuro e dove va la scuola

future schoolDove va il futuro e dove va la scuola
di Stefano Stefanel

                La storia ci racconta che dopo il passaggio di Napoleone sulla storia europea ci fu un tentativo molto autorevole e anche molto popolare di rimettere le lancette indietro attraverso il famoso Congresso di Vienna. L’innovazione napoleonica aveva stravolto l’Europa, ma si pensò di far finta che non ci fosse stata. La pandemia sta finendo (così ci dicono) o, comunque, viene percepita come riconducibile dentro sistemi di convivenza più normali di quelli in cui abbiamo vissuto negli ultimi due anni e, dunque, bisogna ripartire e bisogna farlo tenendo conto di quanto è successo. Il PNRR, la transizione digitale ed ecologica, ma anche l’incredibile guerra in Ucraina dicono che il mondo di domani dovrà essere diverso da quello di ieri e dunque dobbiamo attrezzarci al meglio per capire quale direzione prendere. In questo scenario ci sono un futuro incerto ma pieno di occasioni, innovazioni necessarie e cambiamenti da cui non si può più tornare indietro. Banalmente, osservo, che lo sviluppo del digitale ha portato alla nostra nuova identità (digitale) e lo SPID, piaccia o non piaccia, è il nostro futuro. E anche le battaglie ecologiste, partite con grande clamore prima della pandemia, tornano ora sotto le spoglie di una radicalmente modificata sensibilità ecologica che non viene contestata da nessuno e trova grandi finanziamenti e grandi progetti. Anche l’idea di formazione sta avendo a livello mondiale una sua enorme mutazione verso saperi nuovi, discipline contaminate, nuovi lavori, nuove occupazioni, nuove sensibilità, nuove opportunità. Sembrava, dunque, che la cifra all’uscita dalla scossa pandemica, superiore per forze e impatto a quella napoleonica, portasse verso un’idea di innovazione entro cui inserire anche il nostro sistema scolastico.

                Così qualcuno può essere sconcertato dalla spinta restaurativa e conservatrice che sta pervadendo il mondo della scuola, dove sono tornate alla ribalta parole antiche, che sembravano dover uscire dall’universo di una scuola che vuole recuperare il tempo passato dentro la pandemia. I segnali sono molto chiari e vanno dal ritorno agli esami di stato in cui gli scritti su carta e il nozionismo del colloquio finale spostino il tempo a dieci anni addietro fino alla proposta di reintrodurre il latino alle medie come elemento orientativo tra il liceo classico e il liceo scientifico, quasi che l’istruzione tecnica e professionale fosse un inciampo del destino, da scavalcare con l’enfasi sugli IFTS (cioè i corsi post diploma in alternativa all’università). Oltre a questo, c’è stata la violenta enfasi contro la Didattica a distanza con un’idea di presenza che supera qualsiasi interrogativo su che cosa si va a fare in quella presenza, ma anche un finanziamento cospicuo e disordinato sul digitale che, invece di unificare il sistema, lo ha ancora di più disgregato. È ripartito con grande evidenza il centralismo ministeriale con continui monitoraggi su qualsiasi argomento, piattaforme da compilare quotidianamente con dati su dati che non è chiaro dove confluiscano e perché. Molto spesso si sentono snocciolare sui social e sui media dati tratti da azioni di controllo che hanno avuto esito parziale (dati parziali che portano a decisioni globali). Ha ripreso vigore l’idea della scuola del rigore che boccia molto e che si occuperà non si sa bene come della dispersione in aumento, anzi la dispersione in aumento viene vissuta quasi come il debito pubblico in aumento: un tempo elemento di allarme ora semplice dato statistico. Anche la spinta verso il terzo settore come elemento di aiuto alla scuola rientra in una logica matrigna che spiega all’opinione pubblica come la scuola da sola non è in grado di andare da nessuna parte.

                Tutto questo scenario è reso ancora più interessante dal passaggio durante la pandemia da una fiducia iniziale nella dirigenza scolastica, chiamata a fronteggiare un problema immane apparso improvvisamente, alla sua successiva esautorazione da qualunque catena di comando (con il passaggio, ad esempio, di competenza alle prefetture degli orari scolastici), fino alla spinta verso una dirigenza scolastica esecutiva di compiti decisi altrove. Che il mondo della scuola non debba mettere il naso (o il becco) dentro il PNRR pare ormai chiaro a tutti e le due commissioni ministeriali che lavorano sull’argomento con tutti dialogano tranne che col mondo della scuola, nella certezza che da quel mondo non possano venire idee interessanti. Tra l’altro i soldi del PNRR per le scuole stanno dentro i progetti delle Amministrazioni locali, che con molta fretta hanno dovuto tirare fuori dai cassetti vecchi progetti di messa a norma o di demolizione senza una precisa progettualità di area e con le regioni interessate ad altro.

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                Analizzando tutto questo si deve però constatare che l’opinione pubblica è attratta da questa restaurazione che tocca il mondo della scuola, quasi che da uno stravolgimento epocale (sia determinato da Napoleone o dal Covid) si esca solo riportando tutto alla vecchia normalità e come se quella che stavamo vivendo prima dell’emergenza lo fosse stata realmente. Però l’innovatore davanti alla restaurazione e ai conservatori e alla loro popolarità qualche domanda sulle sue debolezze se le deve fare. Se le idee in cui chi vuole innovare credeva e crede non hanno alcuna popolarità, se alcune evidenze non sono percepite come tali dalla grande maggioranza dei cittadini qualcosa di problematico nella progettualità innovativa c’è. L’impressione è che l’Italia non voglia combattere due battaglie piuttosto impegnative, che ora appaiono troppo complicate: quella della lotta alla dispersione scolastica e alle povertà educative e quella per un riequilibrio dell’ascensore sociale. Se così è per l’innovatore nella scuola non c’è più molto posto e dunque può essere controproducente spingere in tal senso, quando alla grande maggioranza convince di più una restaurazione di pratiche antiche e comunque ritenute coerenti con quello che abbiamo sempre fatto e abbiamo sempre saputo fare.

                E’ uscito in questi giorni a cura di FORUM PA il “FPA – Annual Report 2021” e già nei titoli degli interventi introduttivi c’è un’idea di futuro ineludibile: Coesione, coerenza e costanza nell’innovazione per un’amministrazione al servizio di tutto il paese” (Carlo Mochi Suismondi) e L’allineamento astrale 2022: la nostra ultima chanche (Andrea Rangone). Gran parte di quello che è contenuto nel report non c’è a scuola e la scuola non pare coinvolta in questo enorme processo di innovazione ritenuto indispensabile.

Ma anche il Piano di RiGenerazione scuola, di cui molto si parla indica “i quattro pilastri della transizione ecologica” (Rigenerazione dei saperi, Rigenerazione dei comportamenti, Rigenerazione delle infrastrutture, Rigenerazione delle opportunità) che nulla hanno a che vedere con quello che si sta progettando a scuola (ritorno al latino, esame di stato come ai vecchi tempi, niente didattica digitale se non in presenza e magari solo nelle aule dedicate, struttura cartacea imperante, orari rigidi, saperi legati alle classi di concorso, nuove graduatorie basate sull’anzianità, nessun investimento sulla formazione in ingresso, nessuna obbligatorietà della formazione dei docenti, ecc.).

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                Tutto questo sconcerta e merita un pensiero riflessivo non banale, perché è evidente che in futuro non ci sarà lavoro per tutti e ci saranno opportunità solo per alcuni in un mercato del lavoro e della conoscenza che non avrà motivo di combattere le povertà, perché potrà semplicemente “mantenerle” tramite l’assistenza. Nel ritorno al passato io vedo un brutto disegno di esclusione, perché il sapere che conserva è il sapere di chi avrà la possibilità di scegliere se innovare o meno, mentre chi non ha la possibilità di scegliere o innova o è fuori dal mercato.

                Sembra quasi che la scuola di massa abbia nel dopo pandemia il compito primario di trovare un’occupazione ai bambini e ai ragazzi nelle ore in cui i genitori lavorano, di dare assistenza al mondo della disabilità, di avviare un percorso di alfabetizzazione che si tenga ancorato alla tradizione per poi lasciare correre una parte della sua gioventù verso i licei e la laurea. Se questo non è vero perché il PNRR, le forze politiche l’opinione pubblica non parlano di Rigenerare tutti i laboratori degli Istituti tecnici e professionali e delle Università? Se non si rigenerano in questo modo le infrastrutture come le si rigenerano? Inoltre, viene il dubbio che il PNRR sulla scuola voglia occuparsi del contenuto e non del contenitore dando per scontato che comunque con il calo delle nascite di contenitori nuovi non abbiamo tanto bisogno ed è sufficiente fare in modo che quelli vecchi migliorino il risparmio energetico e l’ecosostenibilità (se ci riescono).

                Credo sia necessario prendere atto che la restaurazione scolastica in atto è molto popolare e che l’innovazione sarà sempre più vista come un lusso inutile che non fornisce reali opportunità agli studenti più forti e non muta il destino di quelli che dalla dispersione scolastica si trasformano in NEET (Neither in Employment or in Education or Training) cioè in coloro che tra i 17 e i 25 anni non studiano e non lavorano (e che sono oltre due milioni). Gettare la spugna e rimandare a un lontano futuro la ripresa di un ascensore sociale che non è mai stato molto popolare, dentro sicurezze che permettono di tornare alle amate conoscenze con tutto il loro seguito di editoria dedicata e classi di concorso amate dai docenti e dai sindacati sembra l’orizzonte più vicino. Insomma, quella che avanza è una restaurazione da prendere molto sul serio in cui i segnali si sommano a dati forniti sempre in maniera incompleta e strumentale con modalità mai organiche ed omogenee. Dura la vita degli innovatori, ma complicato vedere l’innovazione che avanza nella società e la conservazione che si riprende la scuola.


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Posted 26 Febbraio 2022 by admin in category articoli