L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali”
Problemi di pedagogia – 2
L’esame di stato: valutare le “varie ed eventuali”
di Stefano Stefanel
L’accoglienza che questo 2022 sta dando al ritorno dell’esame di stato conclusivo dei due cicli in presenza e con i compiti scritti dimostra come nell’immaginario collettivo nazionale questo sia comunque un momento di passaggio ritenuto fondamentale. Il fatto che sia un esame stressante, contenutistico, ma privo di qualsivoglia selettività, non lo sminuisce nella sua portata sociale e culturale. Dunque facciamo i conti con questo esame, che la pandemia non è riuscita a seppellire, insieme al suo nozionismo, ai suoi stanchi rituali, al suo essere totalmente inutile nel definire orientamenti ormai a tutti già noti.
Il fatto, poi, che sia un rito necessario dice, una volta di più, che deve essere preso sul serio e analizzato come fonte pedagogica primaria almeno degli anni conclusivi del ciclo di studi. Se l’esame finale del primo ciclo è enciclopedico e inutile e condiziona probabilmente solo la parte conclusiva del terzo anno, l’esame di stato nel secondo ciclo invade tutto il triennio e produce una sorta di cappa pedagogica da cui praticamente nessuno vuole uscire o nessuno nemmeno fa finta di voler uscire. Pagati, pertanto, i dovuti debiti ad un rito popolare che costituisce uno degli elementi distintivi del passaggio di età, va, però, considerata, la sua lateralità rispetto a quello che si fa normalmente nelle scuole. Sembra, infatti, che gli studenti studino una cosa e poi nell’esame di stato vengano verificati su altro. L’impressione è che sarebbe come se una squadra si allenasse durante la settimana a giocare a pallacanestro, ma poi la domenica partecipasse al campionato di calcio.
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Molta passione nell’opinione pubblica la determinano le tracce della prima prova di italiano, uguale per tutti. E’ una prova che costituisce in prima battuta uno sfoggio di cultura di coloro che la predispongono, dato che producono un’antologia di proposte con molte tracce di difficile lettura. Questo esercizio di lettura di un’antologia di testi, di scelta del testo da analizzare/commentare, di redazione scritta costituisce un unicum nella vita dello studente. Dal punto di vista pedagogico è interessante notare, però, come lo studente nel suo percorso normale venga “interrogato” su contenuti e metodi legati alla disciplina, e come, nel frattempo, si costituisca una sua struttura di pensiero attraverso l’informale e poi debba farci sopra un tema (o un saggio breve). Poiché non conosco uno studente che durante l’anno sia stato invitato a colloquiare su un argomento di attualità e poi ne abbia ricevuto un voto, mi sembra che qui si raggiunga l’apice della pedagogia creativa, valutando qualcosa su cui la scuola non ha nulla da dire, relegando l’attualità ai compiti in classe di italiano o al compito dell’esame di stato.
Questo rapporto tra una scuola che insegna il formale e che poi valuta l’informale è molto interessante, anche se forse pedagogicamente scollegato dall’idea di fondo per cui l’apprendimento comunque tende a passare, per lo più, dall’insegnamento. Fa dunque stupore questa tenerezza italiana per le “varie ed eventuali” che servono a valutare uno studente che ha studiato ed è stato interrogato su altro. Qualche tempo fa, all’inizio delle pandemia, avevo suggerito di trasformare, anche con l’uso del digitale, l’interrogazione (a domanda risponde o anche “fatti la domanda da solo e risponditi”) in un colloquio colto tra due soggetti non equo-ordinati (l’insegnante e lo studente), che però condividono le basi qualificanti del discorso. Vedo che si è andati nella direzione opposta e che le interrogazioni sono tornate prepotentemente alla ribalta anche con distanziamenti e mascherine. Rimane però questo scarto tra ciò che viene insegnato di ogni disciplina e la richiesta che lo studente si eserciti con senso critico e autonomo, che però nessuno tiene in grande considerazione se non durante questi famosi scritti. Trasformati in articolisti di fondo o saggisti da elzeviro gli studenti dimostrano di apprendere altrove anche ciò che non viene loro insegnato a scuola (l’argomento musicale, che ha fatto felici tutti, non ha prodotto mai un voto durante l’anno).
L’opinione pubblica è simpaticamente colpita da questi testi di giugno, salvo poi disinteressarsi di una scuola che insegna e verifica – per tutto il resto del tempo – su contenuti, ma alla fine valuta lo studente su altro che, evidentemente, lo studente ha imparato da sé. Pensare però di trasformare degli studenti in saggisti con qualche compito in classe è ritenere che tutto ciò che non è direttamente insegnato sta nelle “varie ed eventuali” in cui ognuno può dire quello che gli pare attingendo dove ritiene più opportuno. Pascoli e Verga antologicizzati sono dunque la foglia di fico dell’operazione di superficializzazione del sapere, laddove lo studente deve prepararsi su un argomento, ma poi viene valutato su opinioni, anche non supporate da adeguate citazioni. Il fatto, poi, di affrontare un argomento con le sole carta e penna, senza poter accedere direttamente alle fonti per citarle, dice soltanto che si vuole insegnare ad essere “saggisti” nel modo sbagliato, perché quello giusto è scrivere con le fonti sott’occhio, non andando a ricordo (unici casi in cui perdoniamo il “ricordo” sono quelli di Gramsci e Pirenne, che hanno scritto dal carcere e quindi, non avendo le fonti sott’occhio, sono dovuti andare a memoria).
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Il colloquio su cui si chiude l’esame di stato è un altro esempio di “varie ed eventuali” fatte sistema. Nel corso dell’anno lo studente non viene mai interrogato nell’ambito di un colloquio interdisciplinare. Si fanno delle simulazioni, ma giusto per scriverlo nel documento programmatorio finale. In realtà le discipline rimangono sempre ben distinte, per cui quando improvvidamente nell’esame appaiono in forma multidisciplinare o interdisciplinare si assiste al via vai dei collegamenti, alle strane sinergie, alle affinità elettive mai venute in mente a nessuno. Anche in questo caso la scuola verifica in un modo, l’esame finale in un altro. Ciò vale anche per i Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO) di cui lo studente non parla mai in classe o con i suoi docenti, salvo che all’esame di stato.
In sintesi mi pare che la gioia per il ritorno dell’esame di stato in presenza e degli scritti sia un’ineludibile richiesta restaurativa di qualcosa che costituisce un vero e proprio tratto distintivo dell’italianità, laddove questo rito di passaggio è una sorta di iniziazione necessaria. Nel generale entusiasmo anche mediatico per l’esame mi pare stia sfuggendo la pedagogia e la sua richiesta di un certo rigore processuale. Personalmente toglierei le interrogazioni dalla scuola e le lascerei solo alla loro ineludibile trasformazione in interrogatorio nei tribunali e sposterei tutto sul concetto di colloquio: ma sempre, non solo all’esame. Trovo molto utile che gli studenti dialoghino sull’attualità, sui problemi, sulla cultura, su Pascoli e Verga (o Caproni), ma vorrei che questo fosse il sistema, non il lampo di giugno. Trovo plausibile che le materie di indirizzo vengano testate in rapporto alle reali competenze acquisite. Ma vorrei qualcosa di più strutturato e organico di un esame sulle “varie de eventuali” alla fine di una scuola legata a rigidi ordini del giorno (le materie) così come le ha codificate Gentile al tempo del fascismo. La pandemia e la risposta della scuola a quella tragedia mi avevano fatto sperare nella ricerca di una nuova linea pedagogica. Il flusso mediatico dei pensieri (oramai tutti resi pubblici, questo incluso) mi fa ritenere che si continuerà ad essere valutati durante l’anno sulla battaglia del grano e nell’esame di stato su qualcos’altro di cui in classe non si è riusciti a parlare mai perché si doveva ascoltare la lezione sulla battaglia del grano. Non ho grande passione per le nozioni e il nozionismo testato da domandine, ma non credo si possano eliminare i problemi della pedagogia e dell’apprendimento con esami finali fatti sulle “varie ed eventuali”.