I pregiudizi impliciti in educazione negli USA
I pregiudizi impliciti in educazione negli USA
di Lucia Dalla Montà
Non di rado ci siamo interrogati sull’efficacia delle attività formative, sia che siano organizzate dalle nostre scuole che proposte da altri soggetti, specie di quelle rivolte a trattare quei pregiudizi che, anche involontariamente, condizionano le relazioni con i nostri utenti di origine straniera. E’ un problema, quello dei bias (pregiudizi) razziali impliciti in educazione, studiato da molto tempo anche negli USA: si pensi ad esempio, alle ricerche condotte sui docenti delle scuole delle riserve indiane da cui emergeva quanto il pregiudizio del docente fosse predittivo dell’insuccesso scolastico degli alunni. In una ricerca condotta dalla Yale University, di cui parlò anche il Corriere della Sera nel 2017, emergeva che gli insegnanti bianchi si comportano diversamente con gli studenti neri fin dall’asilo. “Questa forma di razzismo che gli psicologi chiamano implicito o inconscio, è solo apparentemente meno grave perché solitamente non aggressiva, benché discriminatoria e proprio in quanto inconscia e sottile, più difficile da riconoscere in se stessi e negli altri. Non sempre, infatti, il pregiudizio è espresso in modo aperto o evidente. Infatti, tanto più una persona ha un pregiudizio implicito verso un determinato gruppo sociale, tanto più tende ad avere comportamenti non verbali che esprimono disagio, distacco, sospetto, ecc”. L’articolo concludeva con la necessità di una formazione specifica anche se ammoniva della difficoltà di arrivare a superare quell’atteggiamento, perché le persone non possono fare a meno di categorizzare gli altri in gruppi. Recentemente il NEPC, National Education Policy Center della School of Education del Colorado, sempre attento al tema dei diritti e delle disuguaglianze, è tornato a parlarne a seguito di un fatto accaduto nel parco a tema di Sesame Place a Langhorne, Pennsylvania. Lungo il percorso della parata, due sorelline nere stavano aspettando di abbracciare la mascotte del popolare personaggio di Rosita. La mascotte, dopo aver dato il cinque a una madre e un bambino bianchi, faceva cenno di “no” in direzione delle bambine nere e proseguiva oltre. La pubblicazione del video sui social da parte della madre delle due bambine finiva per provocare una bufera mediatica che faceva emergere altri casi simili. Il parco divertimenti sulle prime definiva l’interazione con le due bambine come un “malinteso”, ma successivamente si impegnava a “organizzare una formazione per i dipendenti per far riconoscere e comprendere i loro pregiudizi e offrire così un’esperienza inclusiva, equa e divertente a tutti gli ospiti”. Qui è il punto: quale tipo di formazione? Shaun Harper, docente alla University of Southern California di Forbes ed esperto di formazione aziendale, è intervenuto sul tema sostenendo che i corsi di formazione sui pregiudizi impliciti “una tantum” non servono a molto, ma che purtroppo la maggior parte delle aziende offre un unico workshop sull’argomento. Entrando nel merito, ha poi aggiunto che la formazione sugli “implicit bias” è destinata all’inefficacia se viene erogata come modulo generico asincrono, del tipo “seduto, guarda, fai clic e quiz”, durante l’orientamento iniziale dei nuovi dipendenti. Per Harper, la formazione deve essere multidimensionale e comprensiva di esempi concreti che siano rilevanti per quel particolare contesto aziendale; dovrebbe essere estesa su più giornate per aiutare effettivamente i dipendenti a identificare e a riflettere sui propri pregiudizi inconsci, a discutere le scoperte personali e a condividerle con i compagni, ad individuare modalità di aiuto reciproco, di riconoscimento e di contrasto a tali pregiudizi quando emergono sul posto di lavoro. La formazione dovrebbe utilizzare anche dei video [come quello della mascotte che snobba i bambini neri] per illustrare a formatori, manager e lavoratori come si manifestano i pregiudizi impliciti nel loro lavoro. Analogamente, anche le altre storie condivise sui social media, quelle che il parco divertimenti aveva snobbato, dovrebbero essere incluse per aiutare i dipendenti a comprendere più profondamente l’impatto che i loro pregiudizi impliciti hanno sui clienti razzialmente diversi. Sul caso è intervenuta anche la ricercatrice Ann Ishimaru dell’Università di Washington, avvertendo che anche una formazione così completa e articolata sui pregiudizi impliciti potrebbe non essere sufficiente. In un articolo pubblicato su Educational Researcher, circa il modo di affrontare le disuguaglianze nelle scuole, sostiene che “affrontare i pregiudizi dei singoli educatori è un intervento di equità nelle scuole. Tuttavia, focalizzare l’attenzione solo sui pregiudizi impliciti può oscurare le dimensioni organizzative e istituzionali dell’ingiustizia. Il lavoro individuale e gli interventi rivolti a un singolo contesto o livello, come nei singoli studenti o insegnanti, in un’aula o in una scuola, si conformano alla logica razionale tecnicistica dominante dei processi lineari di realizzazione di obiettivi standardizzati, ma spesso fanno poco per alterare i complessi meccanismi di sovrapposizione dell’iniquità. Ishimaru e i suoi colleghi propongono “una teoria del cambiamento che miri a collegare il singolo educatore e la sua attività in classe con una formazione specifica, a sviluppo continuo e iterativo che coinvolga la classe, la scuola, il distretto e tutto il sistema”. Credo che tutti possiamo concordare con la prof.ssa Ishimaru sul fatto che per trattare efficacemente le problematiche derivanti dai pregiudizi razziali o di altra natura non sia sufficiente concentrare la formazione solo sul singolo insegnante. Pensiamo al peso dei pregiudizi razziali o socio-culturali sui giudizi nei consigli di classe; pensiamo alle segreterie o bidellerie e all’approccio talvolta iniquo verso chi viene percepito come diverso; pensiamo a tutti coloro che, anche involontariamente, nelle nostre scuole quotidianamente sottolineano differenze e diversità con ammiccamenti, frecciatine o risposte vaghe che finiscono per rimarcare la distanza tra un “noi” e un “loro”. Certo, il fattore umano va tenuto presente sia perché le persone non possono fare a meno di categorizzare gli altri in gruppi sia per le complesse dinamiche socio-psicologiche che condizionano i nostri comportamenti. Ma una formazione di “sistema”, approfondita e ricorrente, potrebbe effettivamente essere maggiormente efficace nel contrasto ai nostri pregiudizi impliciti.