L’autovalutazione delle scuole. Criticità di un processo difficile
L’autovalutazione delle scuole. Criticità di un processo difficile
di Renzo Stio
Sul tema della valutazione degli apprendimenti e della possibilità per le scuole di avere a disposizione una serie di dati utili a fare autovalutazione, ci stiamo esercitando ormai da molti anni. Il “PP1” (Progetto Pilota per la valutazione) risale all’anno scolastico 2001-2002. A tredici anni da quella data siamo ancora alle prese con ragionamenti sulla messa a punto di un sistema sostenibile ed affidabile per raccogliere informazioni, esprimere giudizi (perché la valutazione è necessariamente, per sua natura, sempre legata all’espressione di un giudizio) e decidere strade da prendere. In un mondo che viaggia a ritmi estremamente accelerati, mi pare che tredici anni siano un tempo perlomeno eccessivo. Certo è un tempo che impegna il cambiamento di un aspetto fondamentale dell’istituzione scuola, e si sa che tutte le istituzioni evolvono molto lentamente. Anche su questa discrasia sarebbe opportuno provare a riflettere.
Ciononostante, sembra che oggi ci troviamo ad uno snodo: il “Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione” – D.P.R. n° 80 del 28/03/2013 – (sono passati quasi tre anni), avvia una serie di azioni volte ad obiettivi di miglioramento perseguiti soprattutto attraverso forme di autovalutazione delle istituzioni scolastiche, con relativa elaborazione di uno specifico Rapporto (RAV).
In questi giorni, dopo la Direttiva n°11 del 18 settembre 2014 e la C.M. n°47 del 21 ottobre 2014, tutte le scuole sono in fervida attesa delle ulteriori indicazioni operative su come procedere nella redazione del RAV che, come è ormai accertato, si comporrà di una serie di aree e indicatori rispetto ai quali raccogliere dati che dovranno poi essere interpretati per ottenere informazioni utili. Non scendo nel dettaglio del modello previsto e do per scontato che chi legge ne conosca la struttura essenziale. Quello che mi preme, invece, è esplicitare ed argomentare, seppure brevemente, intorno ad alcuni problemi connessi al processo di elaborazione del RAV e, più in generale, all’autovalutazione, che, a mio giudizio, restano insoluti e innescano legittimi dubbi e perplessità sull’efficacia di tutta l’operazione.
1. Scuole e identità
Da qualche anno a questa parte i piani di dimensionamento delle istituzioni scolastiche delle varie regioni italiane stanno producendo nuove entità di scuole sulla base di un’unica priorità: portare tutti gli istituti intorno ai mille alunni allo scopo di rispettare un parametro (in verità ancora non ben definito sul piano normativo) che, per mere esigenze di contenimento della spesa, prevede la progressiva soppressione di tutte le autonomie scolastiche che dovessero risultare sotto tale soglia. Contestualmente a questo processo si è dato avvio alla riforma dell’istruzione secondaria di secondo grado, che ha contribuito alla ristrutturazione delle scuole e dei loro indirizzi di studio. Si aggiunga l’annosa vicenda degli istituti comprensivi che vivono ancora, in non poche realtà, la difficile esperienza di una unitarietà di curricolo e di missione tutta da costruire. In pochi anni, dunque, la fisionomia di tante scuole è cambiata: circoli didattici diventati istituti comprensivi, magari con prevalenza di alunni della secondaria di primo grado; scuole medie quasi del tutto scomparse; licei classici che hanno aggiunto alla loro offerta formativa percorsi scientifici, linguistici, di scienze umane e finanche di tecnici per l’amministrazione e il marketing. Come dicevo poc’anzi, le istituzioni cambiano molto lentamente, così come la loro cultura organizzativa strettamente connessa alla loro identità. Non è cosa da poco. Un liceo classico o scientifico che sia, così come un professionale per l’artigianato, che per molti anni hanno prodotto una certa offerta formativa, hanno sviluppato tecnologie, dispositivi, procedure, progettazioni, didattiche dedicate che hanno costruito, strato su strato, forma e sostanza di un certo tipo di scuola. Oggi, per scuole così articolate, e non sono poche, si tratta di provare a ricostruire un’identità precaria (che è quasi un ossimoro) rispetto alla quale ogni tentativo credibile di valutarne processi e prodotti risulta altamente problematico. È un po’ come dire che se non so con relativa certezza chi sono, cosa voglio e come lo voglio difficilmente potrò valutare scientemente cosa faccio e come lo faccio.
2. Scuole: “anarchie organizzate”
Molti studiosi di sistemi organizzativi sostengono che il modello esplicativo del sistema scuola che le si addice di più è quello del “garbage can” ossia del “cestino di rifiuti”. È un modello che intende la scuola come un’”anarchia organizzata”, un luogo caratterizzato dalla problematicità degli orientamenti manifestati, da una sorta di oscurità delle tecnologie impiegate e dalla fluidità della partecipazione. Sono, in buona sostanza, organizzazioni dove – a seconda delle necessità – un agglomerato di scelte va in cerca di problemi e di questioni capaci di offrire loro occasioni di dibattito, di soluzioni: il contrario di quello che il rigore logico ma anche il buon senso richiederebbero, ossia che siano i problemi alla ricerca di scelte e non viceversa. Ciò significa che le scuole sono sistemi ad alto livello di complessità e che ogni processo che si svolge al loro interno ricalca una complessità per certi versi ingovernabile, che non significa incontrollabile, ma che impone il costante ed accurato presidio dei processi e della loro evoluzione, mediante soggetti professionalmente attrezzati e strumenti effettivamente efficaci. Per tradurre questa teorizzazione – mi si perdoni – un po’ approssimativa per ragioni di sintesi espositiva, nella scuola le figure professionali da impiegare per seguire e monitorare processi (il RAV e il successivo Piano di miglioramento questo richiedono) sono i docenti, la cui formazione specifica e legittimazione istituzionale rappresentano tratti ancora troppo deboli. E se è vero che esistono scuole dove sono in corso esperienze molto virtuose di autovalutazione e miglioramento è quasi sempre vero che i professionisti in esse impegnati appartengono a quella minoranza di persone estremamente motivate, spesso disposte a farsi carico autonomamente della loro formazione; quindi l’eccezione e non la norma di quel che accade nelle nostre scuole. È evidente che un sistema di autovalutazione non può fondarsi sull’eccezionalità di alcune ottime pratiche. È verso la concreta attualizzazione di prassi ordinarie, possibili e sostenibili che bisogna andare: eccellenti esperienze non generalizzabili servono a poco e certamente non contribuiscono alla diffusione di un sistema che deve essere servente alle scuole di tutto il Paese.
3. Muovere risorse
È difficile pensare di poter realizzare un piano di miglioramento senza poter utilizzare risorse ad hoc nei tempi e nei modi che sono necessari allo scopo. Si badi bene, non si tratta tanto di avere maggiori finanziamenti, quanto di poter muovere ciò di cui si dispone senza i tanti vincoli che spesso si traducono in vere e proprie “molestie burocratiche”. Sappiamo tutti che per sostenere economicamente anche il più banale incarico di un team di lavoro, nonostante l’autonomia, è ancora necessario compiere una serie di passaggi che coinvolgono gli organi collegiali, i soggetti della contrattazione di istituto, il direttore dei servizi amministrativi in un processo decisionale frammentato e pericolosamente esposto al rischio di infrangersi o rallentare il suo percorso a causa di ostacoli scarsamente attinenti il senso dell’azione da sostenere. Il fattore tempo, più che quello delle risorse economiche, è oggi più che mai determinante per far sì che i cambiamenti introdotti possano produrre auspicabili risultati. Qualcuno sostiene che le nostre scuole continuano a preparare i nostri giovani per professioni e mestieri che al termine del loro percorso di istruzione, probabilmente, non esisteranno più. Il tempo è davvero prezioso e sprecarlo non può essere più consentito.
4. Bilancio sociale
Autovalutazione chiama rendicontazione. Chi beneficia del servizio che la scuola apparecchia vuole e deve poter avere contezza di come il sistema evolve e dei risultati che riesce a conseguire. Anche questo è un ambito estremamente sensibile, che rimanda al tema di un pubblico consapevole, alla capacità di restituire informazioni complete ma essenziali, all’intelligenza di comprendere che tutto è migliorabile e che non esistono soluzioni definitive e preconfezionate, all’onestà e finanche al coraggio di presentare la realtà in quanto tale senza infingimenti e mistificazioni e senza cedere alla tentazione di rendere ciò che gli altri si attendono invece di quel che effettivamente è. È un terreno molto scivoloso che conviene percorrere solo se opportunamente preparati e solo dopo aver testato l’affidabilità del sistema di autovalutazione. Sperimentazioni più o meno estemporanee ritengo che siano da evitare.
5. Il problema delle competenze
In ultimo vorrei spendere qualche parola sul tema delle competenze. Immagino che siano tutti abbastanza convinti che valutare competenze non è valutare conoscenze o abilità. Valutare competenze richiede di operare in contesti ove si pongono e si risolvono problemi di una certa complessità, presuppone la possibilità di agire in contesti di vita, necessita di costruire e adottare “prove di realtà”. È una prospettiva ancora piuttosto nuova per gli insegnanti, che devono ristrutturare il proprio corredo didattico e strumentale e misurarsi con una dimensione estremamente volatile, che rimanda al saper essere oltre che al saper fare, che richiede saperi di vita oltre che specifiche capacità. Tutto ciò non può e non deve escludere l’attenzione costante, sia nella prassi didattica che in quella valutativa, al mondo delle conoscenze e delle abilità, che costituiscono il terreno imprescindibile dal quale possono germinare le competenze. Esse però vanno riconosciute, potenziate e valorizzate come mezzi per raggiungere un traguardo ben più significativo che – alla luce di quanto indicato dalla Raccomandazione europea del 2008 – si sostanzia in una “comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale.” Non è un caso che, con uno specifico decreto legislativo (Dlgs n° 13 del 16 gennaio 2013), si sia provveduto a definire le norme generali e i livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi per la certificazione delle competenze da essi derivanti. Questo decreto, recependo in particolare la Raccomandazione del Consiglio europeo del 20 dicembre 2012 sulla convalida dell’apprendimento non formale e informale, ha spalancato ulteriormente le porte del lifelong learning verso il riconoscimento di saperi di vita e competenze che possono maturare anche al di fuori della scuola ma che non per questo non debbono avere un’adeguata dignità e un valore spendibile anche nel mercato del lavoro. Sono temi che portano ad un’impegnativa riflessione sul ruolo e sulla funzione dei sistemi formativi e sulla loro efficacia nel prossimo futuro. La scuola del nostro Paese deve forse esprimersi più chiaramente sulla strada da seguire. Spingere per una scuola delle competenze significa fare scelte importanti e non prive di conseguenze che possono addirittura prevedere una sostanziale messa in discussione del valore legale dei titoli di studio e, certamente, i modelli per la valutazione interna ed esterna. Non credo sia un tema trascurabile, visto che stiamo lavorando alla scuola dei prossimi anni e non certo a quella che giorno dopo giorno ci lasciamo alle spalle.
Exit strategy
Consentitemi di concludere questa breve critica (in senso popperiano) al sistema nazionale di valutazione e al nascente RAV, citando qualche caso che mi pare esemplificativo di una possibile exit strategy.
Ho letto recentemente un articolo che parlava del famoso astrofisico Stephen Hawking, a tutti noto oltre che per i suoi studi anche, purtroppo, per il fatto di essere costretto ad una progressiva e irreversibile immobilità a causa di una forma di atrofia muscolare che lo affligge da poco più che adolescente. L’articolo, ad un certo punto, discuteva dell’ennesima sfida che nel 2013, all’età di 71 anni, lo scienziato ha voluto affrontare scrivendo e raccontando se stesso in una breve autobiografia. Ciò che mi ha colpito è stato scoprire che l’opera che ne è derivata, pubblicata nel 2013 in italiano da Mondadori col titolo Breve storia della mia vita, è un racconto intenso, appassionato, fatto di sole 20.000 parole e scritto con grande sacrificio direttamente da Hawking con una tecnologia che gli consente di utilizzare l’unico muscolo del suo corpo ancora funzionante, quello della guancia, al ritmo di 1-8 parole al minuto! Poche parole per narrare una vita così complessa e ricca, ma scelte accuratamente e con grande sapienza, paradossalmente, proprio a causa al tempo necessario a produrle. Poi ho pensato che le grandi opere, dal Discorso sul metodo di Cartesio alla Teoria della relatività ristretta di Einstein, sono spesso testi sintetici e piuttosto asciutti ma estremamente densi di significati e conseguenze. E mi sono anche ricordato di una vecchia massima attribuita ad Indro Montanelli, il quale sosteneva che chi dice con cento parole ciò che può dire con dieci, può essere capace di qualsiasi delitto.
Un paio di mesi fa ho avuto il piacere di assistere alla presentazione dell’ultimo libro di Massimo Recalcati, L’ora di lezione (Einaudi). A parte la vicenda personale di Recalcati, che nel libro racconta di Giulia, l’insegnante che gli ha sostanzialmente salvato la vita (almeno quella intellettuale) riuscendo ad accendere in lui il desiderio e la passione per la conoscenza solo perché profondamente capace essa stessa di quel desiderio e di quella passione, mi ha colpito una riflessione che Recalcati ha fatto. Egli ha sostenuto che una scuola efficace deve poter far conto su due condizioni: docenti appassionati, preparati e motivati; dispositivi (leggi organizzazione) “larghi”, aperti e flessibili. E anche qui mi è tornata in mente una figura: Jan Amos Komensky, meglio noto come Giovanni Comenio, il quale, nella prima moderna opera sistematica sull’educazione, La grande didattica, agli albori del secolo che fu anche di Galileo, sostenne che una buona scuola si fonda su due pilastri: buoni insegnati e buone biblioteche, in luoghi ove ci siano poche chiacchiere, meno tedio, meno lavori inutili e più tempo libero per il piacere di apprendere.
In un interessante saggio dal titolo L’educazione (im)possibile. Orientarsi in una società senza padri (Rizzoli), Vittorino Andreoli, dopo aver argomentato sulla difficoltà di educare in un mondo radicalmente cambiato nel giro di qualche decina di anni, verso la conclusione dell’opera, affronta un tema a me particolarmente caro, quello del silenzio, e dice: “Nel silenzio non si ritrova il vuoto, ma si scopre un’importante dimensione umana, che è appunto l’ineffabile, l’indicibile. Nel silenzio si colloca anche il mistero e allora vien da dire che solo nel silenzio si comprende l’uomo e il mondo, e che la parola è rumore che confonde. Nella scuola introdurrei l’ora del silenzio. E magari potrebbe essere perfino utile prevedere il professore di silenzio (…) Sarebbe straordinario entrare in un’aula dopo la campanella, sedersi e fare silenzio, guardare gli allievi ed essere quindi guardati da loro, che poi si guardano a vicenda, in silenzio.” (p. 182). È la necessità di rivedere le priorità per l’uomo, il suo rapporto col tempo, con la bellezza, con l’ambiente, con gli altri, con l’autorità che porta Andreoli ad evocare un nuovo umanesimo che assuma la fragilità stessa dell’uomo come consapevolezza del suo limite e come forza oppositiva al potere fine a sé stesso e mero esercizio di dominio sull’altro.
I casi che ho citato li ho presi a pretesto per rendere – se possibile – più plastica la via verso quella che ho chiamato exit strategy, ossia rendere quanto più essenziale, semplice e quindi praticabile il sistema nazionale di valutazione delle scuole, a partire dal RAV, affinché tutti possano concretamente beneficiarne come occasione di vero miglioramento. È la via della riflessione possibile e generativa, a partire da poche ma imprescindibili categorie che fondano il rapporto educativo e la destinazione di scopo delle scuole che, non dimentichiamolo, non può non coincidere con la destinazione di scopo dell’azione della dirigenza scolastica. È una via che ridimensiona la statistica ed auspica un giusto equilibrio tra l’azione razionale rispetto allo scopo e quella razionale rispetto al valore. È una via che chiede meno dati e più capacità decisionale, che accetta l’errore e lo valorizza come chance per fare meglio, che – una volta tanto – chiede di meno per poter ottenere di più.