Novembre 11

E dopo la “Buona scuola”?

E dopo la “Buona scuola”?
di Aldo Tropea

Alla vigilia della conclusione della discussione, telematica e non, sul documento dell “Buona scuola”, le cose sembrano farsi sempre più complicate. La quantità di questioni messe in campo da decine di migliaia di addetti ai lavori sui punti di principale interesse è infatti tale da spingere molti a chiedersi se non sia il caso di lasciar perdere i grandi discorsi e di concentrare gli sforzi solo su alcuni punti concretamente traducibili in provvedimenti di legge.
In realtà, la “Buona scuola” si era presentata con un obiettivo assai ambizioso, quello di costituire la premessa per un nuovo patto formativo tra gli utenti, gli operatori della formazione e i decisori politici aulla base di una riconquistata centralità del problema educativo. Proprio questa netta inversione di tendenza rispetto a un passato recente fatto di tagli lineari era stata salutata da molti commentatori come il fatto realmente nuovo, al di là delle modalità tecniche individuate per la risoluzione delle singole problematiche.
Le prospettive annunciate, allora, discendevano da una presa di coscienza della crisi irreversibile delle modalità tradizionali di insegnamento:
a) la stabilizzazione dei docenti con il superamento definitivo del precariato non avrebbe dovuto costituire solo l’ennesima sanatoria, ma rappresentare la premessa per la definizione di nuove modalità di prima formazione e di assunzione;
b) il riconoscimento, sociale prima ancora che economico, del “merito”, significava prendere atto della centralità dell’impegno professionale dei docenti, per questo accompagnato da forme di aggiornamento obbligatorio e da valutazioni periodiche delle prestazioni;
c) l’affidamento ai dirigenti scolastici di competenze relative alla scelta di alcune figure di coordinamento organizzativo e didattico si giustificava nel quadro di un rilancio dell’autonomia scolastica e di una reale leadership pedagogica e organizzativa
d) la generalizzazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro nel secondo ciclo significava prendere definitivamente le distanze da una concezione dell’apprendimento fondato sulla priorità cronologica e valoriale della teoria sulla pratica;
e) l’introduzione e/o il rafforzamento di campi disciplinari tipici della nostra tradizione culturale come la musica e la storia dell’arte implicavano finalmente l’attenzione verso i bisogni e le modalità espressive dei nostri giovani
f) lo sviluppo delle nuove tecnologie non era inteso solo come maggiore disponibilità di strumenti, ma come superamento della didattica trasmissiva e presa d’atto del mutamento dei meccanismi di apprendimento negli studenti “nativi digitali”.
E si tratta solo delle proposte di più immediato rilievo mediatico.
Di là da alcune opposizioni di principio di pura marca ideologica, l’operazione “Buona scuola” – e di questo bisogna riconoscere il merito al governo – ha ottenuto un buon successo politico, come testimoniano centinaia di miglia di messaggi on line e migliaia di incontri indetti non solo dall’Amministrazione ma anche dall’associazionismo professionale, dai comitati genitori e dalle stesse forze politiche, principalmente dal PD. Ma nel corso di queste occasioni di dibattito – e particolarmente da parte degli “addetti ai lavori” – sono venute sempre più in rilievo le enormi difficoltà pratiche del passaggio dalle affermazioni di principio alla proposizione di misure attuative praticabili, finendo con l’alimentare un clima di sfiducia corposo e diffuso nelle nostre scuole.
Per esempio, la stessa operazione di stabilizzazione del personale incaricato annualmente a tempo determinato, che dovrebbe essere la più facilmente realizzabile (oltre che necessaria per evitare le sanzioni europee), nasconde non poche insidie.
In primo luogo, è noto che nelle graduatorie permanenti sono presenti alcune migliaia di lavoratori che, a causa dei tempi lunghissimi di stabilizzazione, hanno trovato altra sistemazione o comunque negli ultimi tre anni non hanno insegnato. Vanno immessi in ruolo anche questi ? Di contro, ci sono discipline importanti e innovative su cui operano effettivamente docenti che non sono presenti nelle graduatorie: non è un’ingiustizia escluderli ?
Inoltre, si pone un problema di qualità delle nuove assunzioni. Certo, si tratta di personale che insegna da anni, ma questa non è una ragione sufficiente per sottrarlo a un progetto di formazione e di verifica, poichè proprio questo contingente costituirà un potenziale fattore di innovazione (o di conservazione) nella scuola. Da molte parti, perciò, si è sottolineata la necessità di rivedere le modalita dell’anno di prova, di controllare i requisiti minimi di conoscenza della lingua inglese e dell’informatica (richiesti a chi viene assunto per concorso), di rafforzare il vincolo di permanenza in sede..
Connessa a questa problematica e attinente a questioni decisive per l’autonomia delle istituzioni scolastiche, è quella relativa alla seconda quota di personale da stabilizzare, aggiuntiva rispetto agli attuali “supplenti annuali”, che dovrebbe entrare a far parte del cosiddetto “organico funzionale”. Qui la lettura del documento governativo non è univoca, poiché tale contingente dovrebbe servire da un lato a garantire le supplenze brevi e le ore che non costituiscono cattedra (i cosiddetti “spezzoni”); dall’altro a consentire chiamate di personale da parte del dirigente scolastico per svolgere compiti specifici di staff e di coordinamento didattico ed organizzativo. Infine, questo personale sarebbe destinato alla copertura delle ore di co-presenza nella scuola primaria che sono state soppresse dalla riforma Gelmini oppure all’insegnamento delle discipline di nuova introduzione.
Si tratta con tutta evidenza di finalità ben diverse le une dalle altre, e c’è da temere che si vengano a costiture nuove rigidità, mentre è essenziale che l’utilizzo dei docenti per le diverse mansioni possa essere deciso autonomamente a livello di ciascuna scuola.
In ogni caso la premessa per ogni possibile forma di utilizzo davvero “funzionale” dell’organico sta in un provvedimento di accorpamento e diminuzione delle classi di concorso, senza di cui le stesse flessibilità previste dal riordino del secondo ciclo si è rivelata impraticabile. Si tratta di un provvedimento che si dice già pronto da tempo e che tarda però ad essere varato, probabilmente per le resistenze delle diverse lobby accademiche.
Ed eccoci arrivati ai punti nodali.
Sulla base di che cosa si individua il personale che svolgerà le funzioni di coordinamento organizzativo e didattico? E ancora: “chi” le attribuisce ? Secondo il documento governativo, il dirigente scolastico, che sceglie tra i docenti presenti in un albo nazionale, essendosi sottoposti a percorsi di formazione e avendo conseguito aumenti di merito riservati al 66% del personale di ogni scuola.
Questo è il punto che ha suscitato il dissenso più aspro, finendo spesso con il monopolizzare la discussione tra i docenti. Pur essendo infatti evidente che occorre in ogni caso individuare in sede nazionale l’”oggetto” della valutazione secondo un protocollo univoco, appare inevitabile che la costituzione di una graduatoria di scuola che “premia” i due terzi e lascia fuori gli altri crei situazioni paradossali di iniquità e generi conflittualità enormi tra i docenti e tra le stesse famiglie.
Qui, tra l’altro, la “Buona scuola”, che pur ha tanti meriti, tocca un tasto che è apparso a tutti veramente indigeribile oltre che irrealistico, quello secondo cui un simile meccanismo innescherebbe la mobilità da una scuola all’altra ( presumibilmente, verso quella in cui la media dei risultati sia più bassa).

Ma, a parte questa “caduta”, i problemi della valutazione del personale docente sono davvero molto ardui e incerte le vie da percorrere, anche a guardare alle esperienze internazionali..
Da parte di molti è stato fatto presente che occorre ben distinguere tra una concezione del merito come premialità a parità di funzioni e quella che lo vede come apertura a una vera e propria “carriera” docente, i cui “gradini” consisterebbero nell’esercizio di funzioni utili all’intera comunità scolastica. Il docente “bravo” non è quello rinchiuso nella sua aula, ma quello che collabora con i colleghi utilizzando a pieno le sue competenze e valorizzando quelle degli altri. Non per sgretolare l’unicità della funzione docente, ma per metterla in condizione di articolarsi efficacemente: il lavoro in team non è necessariamente un lavoro in cui ciascuno sa fare esattamente quello che fanno gli altri e allo stesso modo, ma un utilizzo pieno delle capacità e delle esperienze di tutti. Pensiamo solo alle necessità di coordinamento e di elaborazione che hanno gli organi della progettazione come i Dipartimenti, i gruppi di materia e i consigli di classe, o il nucleo di autovalutazione della scuola.
Esistono poi funzioni necessarie per dare stabilità ai rapporti con il territorio e all’organizzazione interna, quelle attualmente esercitate dalle funzioni strumentali e quelle che nel documento governativo vengono assunte ( un po’ sbrigativamente) sotto la dizione di “mentor”: è evidente che esser vanno riconosciute e retribuite, sia con forma di esonero parziale dall’insegnamento, sia con un sostanziale incremento del fondo di istituto, sottoposto negli ultimi anni a una diminuzione solo quest’anno parzialmente interrotta.
Da questo punto di vista, appare pienamente condivisibile la distinzione tra riconoscimenti economici legati alla carriera ( con le precisazioni fatte sopra), che sono permanenti, e quelli legati temporaneamente alle funzioni svolte.

Quanto alla valutazione, credo che per ognuno dei possibili oggetti da prendere in considerazioni ( “prodotti” didattici; sviluppo di progetti, collaborazione con i colleghi, relazione con l’utenza, rapporto con la dirigenza vista come punto di coaugulo di una leadership per l’apprendimento diffusa) non si possa prescindere da un mix di soggetti ( “pari”, utenza, dirigenza) uniti ad uno sguardo esterno in caso di divergenza tra gli stessi.
Mi rendo conto che si tratta di un ragionamento difficile e complesso, non realizzabile probabilmente in tempi brevi, ma mi sembra l’unica strada percorribile, lasciando comunque una sia pur ridotta quota di scatti di anzianità.

C’è poi una questione che è stata sollevata dai docenti per un verso e per un altro dai dirigenti scolastici ( ricordo a questo proposito gli ultimi interessanti convegni organizzati un po’ in tutta Italia dall’ANDIS) circa il profilo professionale del capo di istituto. E’ possibile che il dirigente sia davvero un “laeder per l’apprendimento” quando la sua giornata è occupata prevalentemente da assilli burocratici o adempimenti legati, per esempio, alla sicurezza ? E come si fa a prevenire atteggiamenti autoritari e clientelari ? La sua appartenenza piena alla dirigenza statale non può costituire pretesto per negare la specificità di una figura professionale che è legata alla duplice lealtà cui è tenuto, nei confronti dello Stato e della comunità scolastica. Perciò la revisione normativa delle responsabilità, la costruzione di organismi di servizio territoriale che supportino il lavoro amministrativo e l’effettiva realizzazione di una valutazione puntuale dei dirigenti, basata sul conseguimento degli obiettivi affidati all’atto dell’incarico, sono le evidenti condizioni per la messa in atto di molta della cultura organizzativa implicita nella “Buona scuola”
Rispetto agli ultimi tre punti, mi permetto solo di fare alcune osservazioni che mi sembrano di buon senso.
Per quanto riguarda le ”nuove discipline”, si può essere d’accordo, ma a condizione che la loro introduzione non significhi aumento dell’orario scolastico, con una inaccettabile marcia indietro verso i mega-quadri orari delle sperimentazioni assistite del passato. Il rischio c’è, ed è ampliato dall’esigenza di stabilizzare anche i precari di aree di specializzazione che appaiono oggi senza sbocchi. E’ invece necessario che l’utilizzo del personale non costituisca la priorità, ma la risposta ad esigenze della scuola autonoma, e per l’apertura di spazi di opzionalità degli studenti.
La seconda questione riguarda due aspetti davvero decisivi per l’innovazione della didattica: la generalizzazione dei percorsi di alternanza scuola-lavoro e dell’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche.
E’ noto a tutti che l’alternanza scuola-lavoro, sia nella forma della permanenza in azienda, sia nelle altre modalità previste dal decreto 77/2005 , come l’impresa formativa simulata, rappresenta uno deii fattori più importanti di motivazione e di orientamento per i nostri giovani, nonché una delle esperienze più gradite dalle famiglie. A mio avviso, tuttavia, è indispensabile da un lato che venga riconosciuto e sostenuto da apposita formazione il lavoro dei gruppi di progettazione e dei tutor; dall’altro che venga avviato un coinvolgimento sistematico delle imprese, per realizzare il quale uno strumento fondamentale appare – assai più della molto improbabile ipotesi di obbligatorietà per tutti gli studenti – l’avvio dell’esperienza di apprendistato del triennio conclusivo degli istituti tecnicie professionali. E ciò per il semplice motivo che se si vuole mettere in piedi un percorso simile al canale duale tedesco non si può semplicemente allargare e rendere teoricamente obbligatorio il periodo di permanenza in azienda, ma occorre costruirne le condizioni: regolare contratto di lavoro per gli studenti; partecipazione alla costruzione dei curricoli, la valutazione e certficazione condivise tra scuole e aziende).
Anche il rilancio effettivo dell’impresa formativa e della scuola bottega rivolta all’artigianato appare, non solo per le oggettive necessità dei contesti meno industrializzati, una possibilità realistica anche se impegnativa per praticare una didattica laboratoriale che si serve di un ruolo tutoriale da parte dell’azienda.. Si può solo ribadire, a questo riguardo, a quanto irresponsabile sia stato l’abbandono totale, per lunghi anni, dei Simucenter regionali e della piattaforma INDIRE che rendeva possibili le transazioni da parte del MIUR,.

Infine, le nuove tecnologie. In Lombardia abbiamo, secondo alcune recenti indagini, il parco-macchine migliore d’Italia, il cui standard andrebbe generalizzato con investimenti mirati ma soprattutto accompagnati da una campagna di formazione obbligatoria rivolta in primo luogo i docenti di nuova assunzione e quindi a tutti gli altri. Non c’è bisogno di essere patiti delle metodologie della “flipped classroom” per capire che l’innovazione didattica e la personalizzazione dei percorsi curricolari passa attraverso l’utilizzo costante della strumentazione informatica, già oggi.
E questo ci riporta al punto di partenza, l’urgenza di provvedimenti concreti. I problemi certamente non sono semplici ma, terminata la fase dell’ascolto, il dovere di chi dovrà apprestare le norme, è quello di scegliere gli obiettivi su cui puntare; individuare con chiarezza i temi da approfondire; prendere atto che altri sono proprio da scartare. Ricordando che molte delle questioni sono di esclusiva pertinenza del governo e dell’Amministrazione ma per altre certamente è necessario riaprire ( e chiudere rapidamente) la contrattazione sindacale.
Se non lo si fa, registreremo l’ennesima perdita di credibilità dell’Amministrazione e dell’innovazione, lasciando a se stesse quelle scuole ( e non sono poche) che provano a farle sul serio.
Speriamo in bene.


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Posted 11 Novembre 2014 by admin in category articoli

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