La mia svolta pedagogica
La mia svolta pedagogica
di Maurizio Tiriticco
Dopo aver girovagato per tutte le scuole del Lazio con incarichi annuali, finalmente, vincitore del mio primo concorso, approdai alla scuola media Ottavia di Roma. Era l’anno scolastico 1963-64, primo della grande riforma di cui alla legge 1859/1962: una legge per cui anch’io mi ero battuto! E tanto! In quegli anni, comunque, erano in molti a non ritenere opportuno abolire l’avviamento professionale. Il ritornello di sempre: non tutti sono portati per lo studio. E poi perché liquidare il latino? Per aprire la scuola ai figli di tutte le classi sociali? E rendere così gli studi più facili? In effetti, non si trattava di rendere gli studi più facili, ma di permettere l’accesso alla scuola e alla cultura a quelle classi sociali che da sempre ne erano state escluse. Ma è proprio vero che la cultura è solo quella dei borghesi e dei piccolo-borghesi? Questi erano gli interrogativi che mi ponevo in quegli anni. E non era un caso che proprio nel 1962 Carlo Salinari pubblicasse un saggio illuminante: “Storia popolare della letteratura italiana”. Insomma, la cultura è tutto ciò che un aggregato sociale esprime come lingua, abitudini, costumi. Il fatto è che poi, nel dipanarsi della storia, i gruppi dominanti hanno imposto la loro cultura a danno di qualsiasi cultura “altra”.
Tornando al fatidico anno scolastico 1963/64, il mio entusiasmo era alle stelle e cominciai fin dal primo giorno di scuola a mettercela tutta: pronto a fare delle lezioni meravigliose destinate a un pubblico infantile che nel giro di un triennio avrebbe preso netta padronanza nel leggere e nello scrivere in forma più che corretta e piena consapevolezza dei diritti e dei doveri di cui alla nostra bella Costituzione repubblicana.
Ma giorno dopo giorno il mio entusiasmo cominciò a scemare: mezza classe mi ascoltava e studiava, ma l’altra mezza si ostinava a guardarmi di sottecchio: nessun’attenzione, niente compiti a casa, spallucce o occhiatacce. Avvertivo che mi sentivano come una sorta di nemico. Che fare? Mi interrogai: come rompere quel muro di gomma? Eppure le mie lezioni erano belle e interessanti: lo sapevo. Negli anni precedenti, come incaricato, non avevo mai avuto problemi di questo tipo. Cos’era che non andava?
Mi feci coraggio. E un bel mattino “presi di petto” gli alunni più ostinati: feci un bel predicozzo, molto aperto e anche un po’ cattivello, e dissi: vivete in una repubblica che vuole che tutti i cittadini siano eguali; basta con i ricchi e con i poveri; basta con quelli che non sanno leggere e scrivere; avete la fortuna di studiare gratis e nel giro di tre anni migliorare la vostra lingua, conoscere nuove cose, aspirare a un lavoro migliore di quello dei vostri genitori… e qui fui interrotto. Per la prima volta dopo tanti giorni l’alunno Bomba, piccolo piccolo, primo banco, che da sempre mi aveva guardato storto e in silenzio, aprì bocca: “Io a scola nun ce vojo veni’. Io vojo lavorà”… e io sorpreso lo invitai a continuare. “Io ciò er forno e lavoro co’ mi’ padre… e mo’ nun ce posso più lavorà e mi padre sta solo”.
Poche parole che mi stupirono e mi segnarono. Un tumulto di pensieri mi assalì. Dopo Bomba parlarono altri. E tutti sostenevano le stesse ragioni. Che venivano a fare a scuola e a perdere tempo con i libri, quando a casa, a bottega, in campagna o non so dove c’era tanto da fare? Ragionamenti che oggi nessuno fa più e fortunatamente, ma che allora avevano una piena giustificazione. Obbligo di istruzione! Appunto! Obbligati a fare una cosa che non avevano e non avrebbero mai scelto. Ovviamente, non si trattava di atteggiamenti diffusi su larga scala, ma, in effetti, una parte della popolazione vedeva nell’obbligo, appunto, un obbligo non ripagato. Ripensai a quei carabinieri presi d’assalto coi forconi quando con le prime leggi dello Stato postunitario venne sancito un obbligo di istruzione elementare biennale. Si rubavano braccia a una campagna già povera e da sempre!
Dopo giorni e giorni in quella prima B mezza classe prese la parola: tutti contro l’obbligo e contro di me, la Legge, lo Stato, che fa perdere tempo sui libri a chi, da sempre, ha invece a che fare con le cose. Mi ricordai quei versi del Giusti a Gino Capponi che i miei alunni certamente non conoscevano: “Gino mio, l’ingegno umano partorì cose stupende, quando l’uomo ebbe tra mano meno libri e più faccende”. La saggezza popolare è sempre grande! E per me fu una doccia scozzese! Mi resi conto di non avere capito nulla. Un conto sono i Princìpi, Sacrosanti, altro conto i Fatti, più che Sacrosanti.
E non cercai di convincere Bomba dell’importanza dello studio, ma di comprendere, invece, che cosa veramente pensasse. “Certamente, gli dissi, il pane è importante…”. “E io lo faccio”, soggiunse Bomba. Ed era sottinteso: “e tu no”! Raccolsi la sfida, confessai la mia ignoranza in materia di panificazione e gli proposi di parlarci del suo lavoro. Bomba accettò. Il giorno dopo si presentò in aula con una cesta in cui c’erano tanti pani di diverso formato: le faccende opposte ai libri. Confesso che rimasi più che sorpreso. Senza molto pensarci su, gli proposi di salire in cattedra e di spiegarci tutto di quei pani. E con molta modestia mi andai a sedere sul suo banco. Bomba, dall’alto di una cattedra che sembrava fosse una vetta conquistata, ci fece una lezione meravigliosa, non so quanto corretta sotto il profilo grammaticale, ma ricchissima sotto il profilo dei contenuti. Capii che fare il fornaio non è affatto una cosa semplice.
Ma capii non solo tutto del pane, ma anche tutto dell’insegnamento. Lo scendere dalla cattedra e ascoltare come un alunno “ignorante”, con tanto di virgolette, potesse insegnarmi e insegnarci qualcosa non fu solo un’intuizione momentanea, ma divenne una pratica quotidiana. Bomba finalmente “si iscrisse” per la prima volta nella prima B! E seguirono gli altri, a turno, giorno dopo giorno, ciascuno a parlare di sé e del suo lavoro. Da cosa nasce cosa. E nei giorni che seguirono le faccende presero il posto dei libri. E la cattedra veniva occupata a turno dai miei alunni ormai felicemente obbligati. Comunque, le materie di studio, quelle della tradizione e dei programmi ministeriali, non vennero affatto abbandonate. Venivano aggredite trasversalmente. Il pane ha una sua storia, è diverso da Paese a Paese; a monte del pane ci sono civiltà diverse, geograficamente collocate. Il pane implica farina, l’agricoltura, l’acqua, i fiumi e gli acquedotti. Il pane si vende: i conti aritmetici. Mi è difficile scrivere in poche righe quel lento capovolgimento della didattica tradizionale. Dai libri ai fatti, alle cose. E Bomba e i più ex resistenti si ritrovarono a redigere appunti, a far di conto e così via. Bomba fotografò i suoi diversi tipi di pane: ne nacquero cartelloni con relative scritte esplicative. Io correggevo e non mettevo voti. E Bomba e i suoi compagni di “classe sociale”, più che di “classe d’età”, addirittura pretendevano che io correggessi! Le materie di studio divennero dei calzini rovesciati. Io non stavo più in cattedra: divenni a poco a poco regista di un nuovo modo di “stare a scuola” e di “fare lezione”. E non sapevo nulla di pedagogia! Per me, roba da maestrine delle elementari!
Però, nella misura in cui legavo sempre più con i miei alunni, dislegavo con i miei colleghi, anzi con le mie colleghe del consiglio di classe. Tiriticco non sa tenere la disciplina! Gli alunni fanno quello che vogliono! Non studiano! In effetti “non studiavano” nel senso classico della parola. Libro di grammatica, niente! Antologia, qualcosina qua e là… e io stesso per certi versi mi sentivo un po’ in colpa. Però i miei alunni scrivevano e parlavano, leggevano poco dei libri di testo, ma leggevano tutto di ciò che loro stessi scrivevano. E pretendevano, tra di loro, delle calligrafie leggibili! E si correggevano anche! Insomma, la classe era diventata una sorta di cantiere! E non sapevo nulla di un certo Freinet. E non mi rendevo conto che in quell’aula si stavano confrontando due metodi di studio.
Capii tutto più tardi. Alla fine di quell’anno scolastico le bocciature fioccarono, non solo nella mia scuola, ma in tutto il Paese! Che cosa stava succedendo? E fioccarono anche l‘anno successivo, e poi ancora. L’innalzamento dell’obbligo di istruzione di almeno otto anni, sancito anche dalla Costituzione, era un fallimento? Ma fallivano gli alunni o falliva la scuola? Gli interrogativi erano tanti, finché nel 1967 apparve un libro, di una strana casa editrice, una Lettera a una professoressa, in cui si leggeva che “a prima vista sembra scritto da un ragazzo solo, invece gli autori sono otto ragazzi della scuola di Barbiana”. Ma nel ’67 io ero già “passato di grado”. Avevo vinto il concorso per le scuole secondarie: un altro mondo! Gli alunni non erano obbligati e professori e professoresse erano tenuti a promuovere o a bocciare, come sempre!
E tornai al mio ruolo di sempre! Ma il mio cuore era sempre là con gli alunni obbligati ad apprendere e gli insegnanti obbligati a fare apprendere. E la lettera di Don Milani fu per me un toccasana. E capii che era la scuola media a fallire, non i suoi alunni. Di lì la mia svolta pedagogica! Di fatto, anche se comunista, la mia formazione era pur sempre crociana, come comunista/crociano – se si può dir così – era stato il mio maestro, Natalino Sapegno. E la pedagogia ai nostri occhi era pur sempre un cascame, un potpourri di discipline. Poi mi capitò tra le mani Educazione e condizionamento sociale di Aldo Visalberghi: aria nuova, aria fresca! I miei dubbi e le mie incertezze vennero illuminati, se si può dir così, e mi avviai decisamente sul terreno della ricerca pedagogica. Il ’68 e il movimento studentesco furono una sorta di viatico e il ritorno all’università fu una scelta che direi obbligatoria. Raffaele Laporta stava lavorando a La difficile scommessa, una lettura critica sugli accadimenti di quegli anni nelle scuole e nelle università.
E dieci anni con Raffaele segnarono una sorta di rinascita, quella che segnò la mia svolta pedagogica.