Meritocrazia, meritorietà, merito e scuola
Meritocrazia, meritorietà, merito e scuola.
di Cinzia Mion
Che il nostro sia il paese delle raccomandazioni, delle clientele, del familismo amorale, delle caste, delle oligarchie, delle corporazioni e della mafie non abbiamo dovuto aspettare Roger Abravanel con il suo famoso saggio “Meritocrazia”, per scoprirlo!
Semmai lui ha rigirato il coltello nella piaga per farci sentire, giustamente, inadeguati, vergognosi e con una gran voglia di riscatto.
Siamo tutti d’accordo finché si invoca in Italia la carenza della valorizzazione del “merito” al fine di attivare il cambiamento invocando un vero e proprio moto di orgoglio. Tale valorizzazione deve avvenire all’interno dell’economia italiana e deve inoltre emergere la necessità di produrre leader eccellenti sia nel settore pubblico che in quello privato.
Siamo anche d’accordo che “il circolo vizioso del demerito” ha condotto ad una società basata sulla cooptazione anziché sulle competenze. Osserviamo anche che tale dinamica si fonda su fedeltà amicali e familiari, su vari “cerchi magici” che in cambio di sudditanza garantiscono privilegi, malcostume che come ben sappiamo sta maramaldeggiando dentro a partiti ed ora perfino nelle associazioni professionali .
Possiamo senz’altro essere d’accordo su un’idea di meritocrazia proposta da R. Abravanel per cui”i migliori vanno avanti in base alle loro capacità e ai loro sforzi, indipendentemente da ceto, famiglia di origine e sesso.”
Non tutti siamo però d’accordo sulla meritocrazia intesa come “il potere del merito”, ossia sul principio di una organizzazione sociale che fondi ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito.
Effettivamente il sociologo inglese Michael Young che nel 1958 aveva introdotto per primo il concetto di meritocrazia , nel 2001, preoccupato per la piega pericolosa che stava acquistando il concetto, arrivò a lamentarsi che il suo saggio fosse stato interpretato come un elogio della meritocrazia invece che come denuncia di vero e proprio rischio, per cui l’intenzione da parte sua era stata quella di criticarla radicalmente.
Già comunque il filosofo T. Nagel nel 1993 era intervenuto ponendo dei dubbi sull’accettabilità che alcune competenze scientifiche o elevate produttività, in altri termini eccellenze, potessero automaticamente essere usate per richieste di pretese politiche o di potere.
Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, a tale proposito afferma “In buona sostanza il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento- come Aristotele aveva chiaramente intravisto- verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano alla lunga alla eutanasia del principio democratico”
Meritorietà, merito e scuola
Ben diversa è invece l’organizzazione sociale basata sul “criterio del merito” invece che sul “potere del merito”
Non è infatti giusto che tutti vengano trattati egualmente, come detta l’ egualitarismo, però è importante che tutti vengano considerati e trattati come eguali.
Ben diversi perciò sono i concetti di meritorietà e merito a scuola.
Il principio “dell’uguaglianza delle opportunità”, che dovrebbe dal tempo del Rapporto Faure ispirare la scuola e l’educazione, significa che davanti a diverse linee di partenza per censo, vantaggio o svantaggio socioculturale, contesti educativi di provenienza più o meno stimolanti, i bambini e i ragazzi devono incontrare, soprattutto alla scuola dell’obbligo, un gran numero di opportune occasioni di crescita tanto da annullare il più possibile gli svantaggi iniziali. Diventa perciò imprescindibile offrire all’interno delle aule scolastiche occasioni in cui tutti possano avere a disposizione percorsi individualizzati e personalizzati, assaporare il piacere di conoscere, acquisire competenze, comprendere profondamente ciò che viene insegnato, imparare a padroneggiare il pensiero per cogliere relazioni e nessi tra i dati anche quando sembrano sconnessi, riuscire ad interrogarsi sui grandi perché del mondo e dell’umanità, scambiare dati, informazioni, pareri, crescere insieme, appartenere al gruppo in cui esiste un “posto” per tutti dove tutti vengano riconosciuti e valorizzati.
Questa è la scuola “meritoria”.
E’ ovvio che al suo interno c’è l’allievo che gratifica di più la fatica, ma anche il piacere di insegnare. Questo non deve indurci a fare una classifica all’interno della classe come tanti invece auspicano. La scuola non è un concorso a premi e nemmeno un concorso per esami e titoli per un posto di lavoro.
La scuola è un’istituzione preziosa e delicata, non può essere piegata a degli slogan di moda senza entrare nelle sue viscere e vedere cosa veramente non va più, cosa deve essere profondamente innovato, quali sono gli aspetti di essa fortemente interrelati per cui se ne tocchi uno puoi travolgerne altri, quali invece vanno tenacemente perseguiti a costo di suscitare rimostranze.
Da parecchio tempo io ritengo che la scuola sia diventata un’istituzione senz’anima.
La passione che la pervadeva negli anni precedenti –dagli anni ’70 fino all’inizio del terzo millennio- si è volatilizzata, tutto è diventato terribilmente faticoso, demotivante, senza smalto.
Dalla proposta della valutazione dei docenti, miseramente naufragata con il Ministro Berlinguer, passando per la riforma Moratti e poi Gelmini, abbiamo assistito ad un decadimento progressivo, ad una disaffezione diffusa che ha travolto e contaminato moltissimi (troppi) operatori scolastici.
Passione e senso di appartenenza all’Istituzione
I problemi e le eventuali soluzioni partono dalla consapevolezza della necessità di ridare passione e senso di appartenenza a tutti coloro che abitano questa Istituzione che è la più significativa di un Paese. In secondo luogo appare immediatamente le necessità non solo di implementare l’innovazione ma di accompagnarne adeguatamente il suo incarnarsi ed evolvere. La recente legge di riforma parla di innovazione ma quella che mi interessa non è tanto quella organizzativa, pur necessaria, ma quella che avviene all’interno del rapporto insegnamento-apprendimento. Una innovazione pregnante e significativa che oggigiorno deve riguardare contenuti e metodi, che tenga presente che a fronte dell’obsolescenza dei contenuti e la facilità di accedere ad Internet ciò che conta è la “comprensione profonda” (non superficiale e meccanica) delle conoscenze, conoscenze però accompagnate da schemi di mobilitazione tanto da farle diventare competenze che nella vita serviranno a chiarire una situazione o a risolvere un problema. Una innovazione che possa definitivamente confinare al posto marginale che merita la prassi della spiegazione, studio individuale e restituzione della lezione (pensiero riflettente) o l’abilità procedurale per giungere alla risposta esatta (ciò che risulta più significativo è invece saper problematizzare) o lo smalto spesso illusorio dell’eccessiva enfasi sulla digitalizzazione se questa aiuta a nascondere l’incapacità della connessione “mentale” offerta invece dal pensiero riflessivo.
E’ per questo motivo che voglio prima di ogni cosa esprimere la mia contrarietà alla proposta di premiare il merito dei docenti e desidero argomentare intorno a ciò.
Non è premiando i cosiddetti “migliori” che si affronta il male della scuola.
Non servono per questo scorciatoie né auspicabili bacchette magiche o riforme sulla carta. Sappiamo bene quanto è forte la resistenza al cambiamento dell’Istituzione scolastica
Come dicevo la scuola soffre da tempo di de-motivazione di alunni e docenti. I primi perché trovano scollamento tra la loro realtà esistenziale, i loro interessi e problemi e i contenuti offerti dai docenti – con le loro lezioni frontali trasmissive – i secondi perché sconcertati dal fatto che gli studenti “non li seguono”, e non possiedono strumenti psicopedagogici per far fronte alla gestione della classe magari a causa della mancata formazione obbligatoria, assente da troppo tempo. La mancata formazione ha poi chiaramente impedito di alimentare quelle che Daniel Stern chiama le “forme vitali”.e che io più banalmente ho sempre chiamato brividi intellettuali.
Ecco io vorrei che i docenti riscoprissero ogni tanto, nel piacere rinnovato della conoscenza e della sua co-costruzione, queste forme vitali da trasmettere ai loro allievi, spesso intorpiditi e distratti quando non annoiati.
La motivazione
La motivazione non è un fenomeno che va soltanto denunciato quando è assente – spesso per giustificare la mancanza di efficacia del proprio insegnamento – va anche studiato, osservato, investigato per passare poi all’azione per indurne la ricomparsa.
E’ la molla di tutto l’apprendimento, poggia sulla curiosità e sul desiderio di competenza, come aveva intuito benissimo, il vecchio saggio Bruner, negli anni sessanta. Ora sappiamo che può attivarsi sulla linea della “prestazione” oppure su quella della “padronanza”. La prima può portare alla competitività e al bisogno di primeggiare, che però si esaurisce quando ciò avviene, la seconda invece apre bisogni inesauribili di approfondimento e di comprensione profonda, di interpretazione autentica dei fatti della realtà e del mondo. In altri termini una volta accesa diventa lifelong learning, ed alimenta la famosa educazione permanente di cui parlava in tempi lontani il rapporto Faure, ripresa oggi dalla proposta EUROPA 2020.
La scuola non ha bisogno di competitività, già scatenata tra gli allievi dall’infausta reintroduzione dei voti numerici su scala decimale (regolamento che dovrebbe essere abolito), di sicuro non c’è bisogno che questa sia fomentata anche tra i docenti. Un’altra opzione infatti si accompagna alla famigerata meritocrazia: si tratta dell’individualismo provocato da venticinque anni di neoliberismo che attiva una visione concorrenziale dei soggetti tra loro.
Rappresentatevi il disimpegno che potrebbe circolare tra i docenti che sentono subito di essere esclusi dal piccolo“cerchio magico” Già me li immagino i vari “chi me lo fa fare”, e l’incremento di rivalità e gelosie.
Si è pensato agli studenti e al loro diritto di avere tutti buoni insegnanti motivati o si è pensato solo a dare un incentivo ai cosiddetti docenti più meritevoli ?
Con ciò non intendo escludere la loro valutazione, anzi. La valutazione che serve però è quella “formativa” che alimenta la consapevolezza e il desiderio di migliorare. Allora più che di premi dovremmo pensare al processo di valorizzazione e di incoraggiamento per tutti, alla costruzione del portfolio formativo dei docenti verso la realizzazione di veri professionisti riflessivi in grado di autopercepirsi ed autointerrogarsi.
La scuola ha bisogno perciò di cooperazione (lo afferma anche la legge di riforma salvo poi correre il rischio di contraddirsi), di operose comunità di pratica professionale all’interno delle quali tutti insegnano e tutti imparano, dove anche il docente novizio con le sue domande di senso costringe il docente esperto a porsi dei quesiti cruciali come magari non faceva da tempo, dove le pratiche didattiche vanno deprivatizzate, dove può avvenire un confronto fermentativo, presidio della motivazione alla padronanza, dove vengono esplicitate anche le conoscenze “tacite” che costituiscono una parte importante della pratica professionale, ma dove soprattutto si cresce insieme, sulla sollecitazione degli stimoli della formazione obbligatoria.
Da una “scuola buona” ci si aspetta che all’interno della sua comunità i docenti più motivati contaminino gli altri, che riescano ad invogliare i riottosi verso la partecipazione, a provare il piacere insieme agli altri “di fare squadra”. All’interno di questo percorso scaturisce il bisogno dell’approfondimento, la necessità di cogliere il nucleo epistemologico della disciplina che si insegna, per il miglioramento della qualità della propria formazione professionale: processo autogratificante che non ha bisogno di premi. Sono questi i bravi docenti ma il loro merito è indissociabile dall’intersoggettività – recentemente provata scientificamente dai neuroni specchio –degli uni nei confronti degli altri.
Dirigente: leader for learning
La scuola oggi ha bisogno allora di condizioni di realizzabilità della comunità professionale dei docenti. Per questo motivo necessita di un dirigente leader for learning (l’organizzazione è la conseguenza di questa leadership non la premessa), di un leader che sappia avviare, sostenere e monitorare un apprendimento trasformativo delle prassi didattico-metodologiche di troppi docenti che altrimenti offriranno sempre più una differenza incolmabile tra il loro livello di preparazione teorica, spesso avanzato, e le loro pratiche obsolete e ripetitive: scissione riprodotta purtroppo spesso anche dal mondo accademico –salvo rare e fortunate eccezioni-e ricevuta nella loro formazione iniziale.
Ma ha anche bisogno, tra le condizioni di realizzabilità, di tempi più ampi di non-insegnamento per permettere i famosi dialoghi di riflessione all’interno della comunità di pratica.
Ritornando alla figura del dirigente – rispetto al quale non capisco tutta l’acredine dei docenti comparsa negli ultimi mesi – se il suo ruolo è quello di garante del miglioramento della scuola, quindi dell’apprendimento degli alunni ma anche dell’apprendimento dei docenti – adulti già professionalizzati – mi sembra ovvio che molta accortezza deve essere posta al momento del suo reclutamento e poi della sua formazione.
Spero di non vedere più quell’aberrante sistema della prima selezione intorno al criterio della velocità nella ricerca compulsiva della pagina del test, con il risultato poi della risposta, non riflessiva, ma automatizzata da mesi di addestramento al riflesso condizionato.
Raccomando inoltre molta cautela nell’affidare il corso-concorso “solo” alla scuola di Pubblica Amministrazione perché se da un lato questa garantisce un’ottima formazione giuridico-amministrativa dall’altro lascia completamente scoperta la formazione psicopedagogica.
Appare naturale che l’Amministrazione abbia bisogno di bravi burocrati che evitino il più possibile il moltiplicarsi di ricorsi ma “la buona scuola” ha bisogno di bravi dirigenti scolastici che conoscano a fondo i principi fondamentali della psicologia dell’apprendimento, le condizioni anche organizzative e di realizzabilità della didattica laboratoriale – ineludibile per insegnare competenze atte a risolvere situazioni e compiti di realtà – che sappiano avviare esperienze di ricerca didattica e vogliano sostenerle e in questo modo accettino la sfida di “rianimare” tutti i docenti ed una scuola a rischio di diventare asfittica.
Bibliografia
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