Le riflessioni che seguono sono state sollecitate da alcune recenti pubblicazioni che offrono spunti perelaborazioni più aggiornate circa il ruolo del Dirigente Scolastico (DS) nel nostro sistema scolastico; e, prima ancora, su quale idea di scuola a cui quel ruolo va orientato.
Le pubblicazioni a cui mi riferisco sono la Ricerca della Fondazione Agnelli sulla giornata del DS (Gli equilibristi. La vita quotidiana del dirigente scolastico: uno studio etnografico, condotto da Massimo Cerulo) e l’ultimo dossier di Tuttoscuola, dal titolo “DS: Manager, sceriffi o … Dirigenti figli di un dio minore?”.
A proposito della Ricerca, essa conferma ciò di cui si ha netta e diffusa percezione: le energie che si spendono e lo stress che si accumula – si parla del DS – vengono compensati in misura molto marginale dai risultati attesi. Con la conseguenza che la percezione generale è che poco o niente migliora, nonostante gli sforzi, e che strategie di direzione che facciano perno su una idea promettente di Leadership sono ormai fuori dagli orizzonti di gran parte dei DS.
Il dossier di Tuttoscuola riconsidera alcune immagini recenti del DS, rimbalzate nei media e diffuse nell’opinione pubblica, evidenziandone opportunamente l’arbitrarietà e la sostanziale infondatezza; e soprattutto l’assurdo di un ruolo sempre più impegnativo e strategico a cui però vien fatto corrispondere l’immagine sociale di “un figlio di dio minore”. Quello che comunque qui interessa evidenziare è che la percezione abbastanza generalizzata del DS sembra escludere accostamenti significativi di questa figura alla Leadership come motore del rinnovamento.
In queste pubblicazioni, ma soprattutto guardandosi in giro, mi sembra di cogliere quasi la conferma di una sensazione che si avverte da tempo; e cioè che il fascino che il tema della Leadership ha esercitato da quasi due decenni su una buona fetta del mondo della scuola (negli altri mondi, l’appeal data almeno da gli anni ’80) si sia piuttosto affievolito. Abbiamo continuato a parlarne nei convegni nazionali e internazionali, sulle riviste specializzate e nei libri, a cercare definizione e attributi sempre più teoricamente interessanti; ma di fatto il modello di scuola centrato sulla Leadership Educativa (LE)ha avuto ed continua ad avere grandi difficoltà a decollare.
Le ragioni vanno come sempre ricercate su più fronti (selezione e formazione in primo luogo del personale, ma soprattutto le difficoltà a definire un’idea di governance accettabile e chiara delle singole Istituzioni Scolastiche e del sistema, in parte legate alle frenetiche e disordinate trasformazioni di quest’ultimo decennio). C’è da chiedersi pertanto, alla luce di queste considerazioni, se non manchi un ancoraggio a questa visione della dirigenza e se non sia fuoviante l’enfasi continua sul tema della LE[1], (contraddetta tra l’altro, almeno nel nostro Paese, da un tipo di offerta formativa ministeriale centrata prioritariamente sugli aspetti burocratico-amministativi); e se non sia superata una idea di Leadership declinata più in termini di dover essere (che tipo di leader deve essere il DS, quali le attitudini, gli stili, i tratti da coltivare, la leadership da promuovere) che di obiettivi da assumere e centrare per la scuola che vogliamo.
Mi chiedo cioè se non sia il caso di pensare ad un approccio diverso per quanto riguarda il ruolo del DS e il suo profilo. Senza ovviamente gettare alle ortiche le tante cose comunque importanti che le esperienze e gli studi sulla LE ci hanno consegnato[2].
E di pensarci recuperando un altro tipo di approccio alla figura del DS e alla definizione dei suoi tratti caratterizzanti. Approccio cioè più attento al compito che al profilo; più attento cioè alla vision di scuola che vogliamo costruire; all’interno della quale considerarne il ruolo e ritagliarne i compiti prioritari.
Vision di scuola in cui comunque la rilevanza della funzione docente e il contributo degli insegnanti vanno ovviamente visti come imprescindibili.
Ormai da un paio di decenni l’idea di Comunità di pratiche e quella di Comunità professionali – e delle strategie ad esse legate (Cooperative Learning e Learning Organization soprattutto) – sono sì entrate nel dibattito dei nostri convegni; ma come tematiche residuali.
Conosciamo bene gli ostacoli più grossi che si incontrano su questo terreno. Mi riferisco alla cultura individualistica e autoreferenziale prevalente tra i nostri insegnanti (ma anche tra i DS), favorita da una normativa, da una giurisprudenza e da pratiche ministeriali che considerano la dimensione collettiva dell’insegnamento, cioè il lavorare insieme, il crescere professionalmente insieme, come optional insignificante. La stessa idea di partecipazione degli OOCC è stata vanificata spesso, anche per difetti intrinseci alla norma, da una libertà di insegnamento come privilegio (da giocare in pratiche chiuse e separate), anziché come garanzia e riconoscimento del valore della soggettività propositiva e creativa.
Ma va messo sull’altro piatto della bilancia – e non va sottovalutato – il fatto che l’assetto organizzativo interno alla maggior parte delle nostre scuole si configura come una rete in nuce di potenziali comunità di pratiche (i CdC, i GD, i Gruppi di Progetto, le Equipe di Direzione …).
In altri termini: perché, allora,con riferimento alla questione DS – esplosa soprattutto con la recente legislazione sulla cd buona scuola – non assumere questo come compito principale del DS – costruire / tendere a conformare le scuole in primo luogo come Comunità professionali e di pratiche – e, in rapporto a tale compito stimolarne la crescita professionale e individuare indicatori per valutarne gli esiti del lavoro? E, su questa base, dare senso e gambe ad un’idea di scuola come “impresa collettiva”, dove il coinvolgimento dei docenti è conditio sine qua non?
Va considerato tra l’altro che, sulla nozione di Comunità di pratiche – CdP – (come su quella di Comunità professionale – CP – che ha comunque connotazioni sue proprie[3]), la letteratura è molto più “frequentabile” e le indicazioni operative più omogenee e concrete (che non significa “semplici” e “facili”, soprattutto nel nostro sistema scolastico). E meno ambigue.
Va aggiunto anche che le esperienze di Istituti sperimentali storici del nostro Paese hanno offerto su questo terreno materiale importante e utile per verificarne l’efficacia e migliorare i profili. Mi riferisco alle sperimentazioni autonome di Milano e dell’area milanese, Genova, Firenze, Padova, Gubbio … soprattutto degli anni ’80 e ’90.
Sulla questione mi sono parsi stimolanti alcune recenti riflessioni di De Anna e di Cerini[4] e, soprattutto, alcuni contributi di Ivana Summa e di Cinzia Mion[5] per ulteriori approfondimenti e per possibili proposte operative[6]. Ovviamente basilari al riguardo sono soprattutto – come è noto a chi si è interessato al tema – le ricerche di E. Wenger , T. Sergiovanni e D. Schon[7].
Comunque va considerato anche un altro aspetto: si può correre il rischio, nel lanciare idee di questo tipo, che prevalga la sensazione tra gli stessi dirigenti che si voglia mettere altra carne al fuoco e di aggiungere nuovi stress a quelli di oggi, che bastano e avanzano. E questo è un problema che non può in nessun caso essere tralasciato, se non si vuol fare un buco nell’acqua.
Un richiamo utile, per concludere, almeno per adesso ( potrebbe essere una minaccia!): il comma 3 della L. 107 parla della CdP, ma dentro un costrutto che gli nega valore e significato (praticamente, uno specchietto per le allodole). La nozione-concetto non viene più ripreso nella Legge e le scelte che fa sul DS e sugli insegnanti certamente non aiutano a costruire un progetto su questo tema. Però non lo negano, almeno questo pare di capire.
Può allora valere la pena farci un pensiero, soprattutto all’interno dell’Associazionismo di DS e Docenti?
[1] Anche nella sua declinazione di Leadership per l’apprendimento
[2] Ancora utilissimo in proposito il libro di GP. Quaglino, scritto insieme a C. Ghislieri: Avere Leadership, 2004, Raffaele Cortina Editore, che offre una quadro sintetico degli sviluppi sul tema, ma soprattutto le questioni aperte gli apporti più stimolanti anche per ripensare un nuovo profilo del DS coerente con un suo possibile – e centrale – compito, in rapporto all’idea di scuola come comunità professionale e comunità di pratiche. Interessante anche la ricerca di tre studiosi /esperti americani, A. Deering– R. Dilts– J. Russell , inCoaching e Leadership, Alessio Roberti Editore, 2004, condotta secondo i canoni della Programmazione Neuro-Linguistica (NLP).
[3] In genere, si tende ad attribuire alla CP soprattutto queste caratteristiche: il senso di appartenenza, la percezione di essere dentro una rete di relazioni capace di fornire sostegno emotivo reciproco, una riconosciuta interdipendenza, un sistema comune di apprezzamento. Invece nella nozione di CdP sono parole chiave soprattutto: scambio (di pratiche, di idee, di strumenti, di modi fare e di essere), cooperazione, confronto, apprendimento reciproco, cura della qualità delle relazioni.
[4] GC Cerini, I dirigenti come costruttori di comunità in “Dirigenti scolastici di nuova generazione”, Maggioli Editore); F. De Anna, L’aquila e il cavallo. Ovvero la valutazione del DS, sui siti di ScuolaOggi e Pavone Risorse
[5] I. Summa, Se il docente fa comunità professionale in RdI, N. 6 -2014); C. Mion, Comunità Professionale dei Docenti. Riferimenti teorici e pratici, Atti Convegno DS della FLC -2012 -, Edizioni Conoscenza.
[6] Si rinvia, immodestamente, al capitolo Comunità di pratiche e Leadership diffusa in Gli insegnanti nell’organizzazione scolastica. Consapevolezze e competenze di una professione che cambia, Edizione Conoscenza 2015, pp. 63-82 (seconda edizione), dell’autore di queste note.
[7] Di E. Wenger, soprattutto, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Raffaele Cortina 2006; di T. Sergiovanni in particolare: Costruire Comunità nelle scuole, LAS 2000 e di D. Schon (Il professionista riflessivo, Dedalo, Bari 1993