Valutazione formativa: solo restyling?*
di Giancarlo Cerini
Una questione pedagogica, ma anche “politica”
Tra le novità inaspettate introdotte dalla legge 107/2015 c’è anche una ampia delega legislativa (al comma 181, lett. i, dell’unico articolo della legge) in materia di valutazione. Il legislatore, infatti ha affidato al Governo la potestà di rinnovare le modalità e gli strumenti della valutazione e della certificazione delle competenze nel primo ciclo, ivi compresi la revisione dell’esame di Stato. I criteri sono assai aperti, perché l’unica raccomandazione è quella di valorizzare la funzione orientativa e formativa della valutazione. Una delega più limitata riguarda la revisione degli esami di Stato conclusivi del secondo ciclo di istruzione.
Si tratta, ora, di verificare quali saranno le innovazioni apportate all’attuale sistema di valutazione degli allievi, che nel primo ciclo risale al 2008, quando furono ripristinati il voto in decimi (accantonato con la legge 517/1977) e la valutazione del comportamento, e fu prevista ex-novo la certificazione delle competenze anche nella scuola di base.
Il tema della valutazione degli allievi presenta delle forti implicazioni sociali (per l’incidenza sull’opinione pubblica e sull’esperienza di milioni di ragazzi e delle relative famiglie); questo lo caratterizza come “tema sensibile” presso la società civile e non solo come questione di natura tecnico-docimologica. L’esigenza pubblica è quella di una valutazione chiara, semplice, sintetica, con un valore socialmente spendibile (ecco il paradosso vincente del voto in decimi), salvo poi la parallela richiesta alla scuola di una capacità di attenzione ai percorsi personali dei singoli allievi, di apprezzamento di una pluralità di apprendimenti e di competenze, di presa in carico di situazioni di disagio e di difficoltà (BES. DSA, ecc.). Insomma, l’opinione pubblica sembra oscillare tra il richiamo ad un valore legale, oggettivo, della valutazione (sommativa) e la sensibilità verso una funzione pro-attiva della valutazione (formativa)
Valore formativo e sommativo
Anche tra gli operatori scolastici emergono atteggiamenti diversificati:
a) nella scuola di base appare consolidata una cultura della valutazione formativa, che attribuisce alla stessa una funzione formativa e di orientamento (dicitura utilizzata nella stessa legge delega), quindi centrata su una funzione di accompagnamento, di stimolo al miglioramento, di sviluppo delle potenzialità;
b) nella scuola secondaria prevale la preoccupazione della “oggettività” della valutazione, da ancorare a standard espliciti e da riferire agli apprendimenti disciplinari (di qui una certa difficoltà a dare valore al tema delle competenze, della loro valutazione e certificazione, per non parlare delle didattiche conseguenti).
Le novità in materia di valutazione dovrebbero essere percepite dai genitori (e da tutti gli stakeholder) come il ripristino di una valutazione sincera e chiara, non arcigna e inutilmente selettiva, ma finalizzata a riconoscere e promuovere le capacità di ciascuno, a valorizzare i talenti, spostando l’attenzione dalle etichette (voti, lettere, giudizi, ecc.) agli effettivi apprendimenti conseguiti (in termini di conoscenze e di competenze). Nel percorso di istruzione obbligatoria questo principio assume una rilevanza costituzionale (con l’impegno a sostenere attivamente l’apprendimento e non solo a registrare gli eventuali insuccessi), per il secondo ciclo la valutazione dovrebbe “orientare” verso le scelte più idonee ciascun ragazzo e “attestare” erga omnes il raggiungimento di competenze culturali/pre-professionali.
Non è una impresa facile, perché sulla questione prevalgono spesso semplificazioni di corto respiro.
Valutare non è (solo) misurare
La ricerca docimologica sottolinea l’esigenza di distinguere con maggiore chiarezza i momenti:
- della misurazione (privilegiando la diversificazione degli strumenti usati per rilevare gli apprendimenti: prove autentiche, osservazioni, prove tradizionali, prove strutturate, prove standardizzate, ecc.),
- della valutazione (in cui il giudizio interpretativo va riferito ai criteri adottati, che possono essere riferiti a standard assoluti, alla comparazione con la distribuzione “normale” degli esiti, al percorso personale di ogni soggetto),
- della comunicazione, con l’adozione di un codice esplicativo (voto in decimi, lettere dell’alfabeto, aggettivi sintetici, giudizi discorsivi), cui dovrebbe corrispondere una rubrica descrittiva dei livelli dichiarati.
Spesso nella percezione pubblica (ma anche tra molti addetti ai lavori) si tende a sovrapporre i tre momenti: un voto in decimi può essere di volta in volta la misurazione di un compito in classe, la sintesi valutativa di un quadrimestre in una disciplina, il giudizio finale attribuito ad un allievo (es: al termine dell’esame di licenza media).
La scelta delle forme di valutazione produce certamente degli effetti a ritroso sulle pratiche della valutazione quotidiana (per cui è opportuno ampliare le strumentazioni in uso), sulle pratiche didattiche (da meglio articolare rispetto alle dinamiche prevalenti dell’insegnamento frontale), sulla progettazione del curricolo di scuola (che non può ridursi ad una mera trasposizione di contenuti e obiettivi dei programmi nazionali o dei manuali scolastici).
Di queste connessioni c’è ampia traccia nelle Indicazioni nazionali per il primo ciclo e per i licei, nelle linee guida (tecnici e professionali) e da ultimo nelle linee guida allegate all’ampia sperimentazione sulla certificazione delle competenze nel primo ciclo (CM 3/2015).
I criteri di valutazione
Nel primo ciclo un criterio di riferimento per la valutazione in itinere (suggerito anche dalle Indicazioni vigenti, DM 254/2012) dovrebbe essere la “progressione degli apprendimenti verso traguardi attesi e definiti”, in cui coniugare l’attenzione ai percorsi personali degli allievi con l’obiettivo di stimolare il raggiungimento di standard di apprendimento fondamentali, nel corso degli otto anni di scolarità di base. Un protocollo operativo nazionale dovrebbe descrivere gli standard progressivamente attesi, con livelli crescenti, che solo a maglie larghe corrispondono giuridicamente alla classe scolastica frequentata.
Questo fa propendere per il superamento del voto in decimi, in favore di una scala più semplice (es: 5 livelli – magari sintetizzati dalle lettere A-B-C-D-E – cui far corrispondere descrizioni di livelli di progressione), e del superamento della “bocciatura”, cui preferire misure di differenziazione/compensazione durante l’intero anno/ciclo scolastico. E’ evidente che la sostituzione dei voti in decimi con le lettere alfabetiche (o aggettivi sintetici) di per sé non cambia la natura della valutazione, tuttavia impedisce di trattare i “voti” come oggetti matematici, su cui operare medie aritmetiche. L’espressione di un giudizio (valutazione) diventerebbe così il frutto di un apprezzamento più ampio (della semplice media aritmetica), basato su dati, informazioni, tendenze (misurazione), da interpretare con riferimento al percorso del singolo allievo ed ai risultati attesi per tutti.
Invece, il valore sommativo/certificativo della valutazione, nel doppio momento dell’esame di stato e della certificazione delle competenze, dovrebbe essere riferito al termine del primo ciclo (terza media, ma secondo alcuni esperti, al termine del biennio superiore), facendo invece risaltare il valore formativo/conoscitivo della valutazione lungo l’intero percorso dell’obbligo scolastico.
Prove INVALSI ed esame di Stato
Una questione da affrontare si riferisce al valore e all’impatto delle prove Invalsi. Affiorano persistenti diffidenze tra gli insegnanti circa il significato delle prove strutturate, con queste motivazioni:
- scarso legame di prove nazionali con i curricoli effettivamente praticati;
- estraneità delle prove ai contesti sociali e culturali delle scuole “reali”;
- modalità di somministrazione avulse dalle modalità ordinarie di valutazione;
- rapporto tra standard richiesti e diversità di allievi presenti in classe;
- possibile utilizzo improprio degli esiti delle prove;
- incidenza sulla carriera degli allievi di prove docimologiche.
Per questi motivi, si fa strada l’ipotesi di eliminare le prove INVALSI dall’esame di licenza media, mantenendo però la loro obbligatorietà all’interno del terzo anno di corso della scuola secondaria di I grado. Resta aperto il dilemma se dare conto degli esiti delle prove (riferite al singolo alunno) in una qualche forma ufficiale, ad esempio, in calce al voto finale d’esame (al quale però non concorrerebbe) o nel corpo della certificazione delle competenza, in guisa di riscontro “esterno” dei livelli di apprendimento nelle competenze linguistiche e matematiche e, un domani, in lingua straniera. Chi propende per una notifica formale dell’esito richiama il valore di “ancoraggio” ad alcuni standard di apprendimento, assicurato da una prova strutturata di carattere nazionale; chi non è d’accordo sottolinea che si tratterebbe dell’unico caso in cui una prova INVALSI sarebbe utilizzata per dare informazioni sui risultati di un singolo allievo, mentre le prove hanno in generale lo scopo di far conoscere i livelli generali di apprendimento, in una classe, in una scuola, nel nostro paese. Sono cioè una misura di sistema.
E per la certificazione delle competenze?
Una questione aperta riguarda il futuro della certificazione delle competenze. Nel primo ciclo c’è una ampia sperimentazione in atto (CM 3/2015) che riguarda oltre 1.900 scuole ed è giunta al suo secondo anno. Al centro del lavoro delle scuole è la ricerca sulle competenze chiave e di cittadinanza (che, ricordiamolo, sono uno dei punti deboli del Rapporto di Autovalutazione) da ancorare alle competenze del profilo di uscita dal primo ciclo (Indicazioni/2012) e alle otto competenze chiave europee (2006). I primi riscontri della sperimentazione segnalano il gradimento per il superamento della logica classificatoria in favore di una logica descrittiva di livelli di progressione: nel modello sperimentale le competenze sono valutate attraverso un codice di 4 lettere (A-B-C-D) che sostituiscono in voti in decimi. Inoltre il valore più debole (D) esprime comunque un apprezzamento positivo, di competenze in via di primissima acquisizione. Invece, le scuole hanno utilizzato solo parzialmente lo spazio “libero” del format per indicare competenze personalizzate, aggiuntive alle 12 standardizzate inserite nel modello, come pure segnalano difficoltà a “curvare” il modello alle esigenze degli allievi con bisogni educativi speciali. Resta un punto interrogativo anche il raccordo tra le competenze trasversali indicate sulla scheda e le competenze disciplinari richiamate dalle Indicazioni.
Anche in questo caso la delega dovrà sciogliere alcuni nodi. Il Comitato Scientifico per le Indicazioni, suggerisce di costruire uno strumento valutativo unitario per dare conto – al termine di ogni anno – di apprendimenti disciplinari, comportamenti (competenze personali e sociali), competenze chiave. Sembra comunque condiviso l’orientamento a sostituire il termine certificazione (che accentua il valore legale della procedura) con quello di attestazione (che documenta la progressione degli apprendimenti). Nel primo ciclo l’approccio dovrebbe essere prevalentemente pedagogico, piuttosto che algidamente certificativo.
Cosa bolle in pentola
Esistono numerosi riferimenti normativi in materia di valutazione, che si sono via via stratificati nel nostro ordinamento scolastico, ma che dimostrano anche la notevole incertezza del legislatore in materia (dal 1977 al 2008 si sono succedute 5 modalità diverse di valutazione nel primo ciclo, ad esempio). Appare dunque necessario un coordinamento normativo unitario pur nella possibile distinzione, richiamata anche nella delega, tra valutazione nell’ambito del primo ciclo (per analogia, nella scuola dell’obbligo) e del secondo ciclo.
Un utile punto di riferimento è rappresentato dal Regolamento per la valutazione degli allievi (DPR 122/2009), che però è frutto della passata stagione politico-culturale.
Il decreto legislativo richiesto dalla legge 107/2015 dovrebbe presentarsi come testo contenente principi fondamentali per la valutazione degli allievi, ad un livello elevato di definizione ma non di dettaglio operativo, per veicolare poi successivi provvedimenti di natura regolamentare da affidarsi al Ministro (con la descrizione delle procedure tecniche da adottare in alcuni grandi settori di intervento: scrutini e valutazione; esami I e II ciclo; certificazione delle competenze).
Un’attenzione particolare va rivolta alla tempistica delle operazioni relative alla elaborazione, approvazione ed entrata in vigore del decreto legislativo e dei relativi provvedimenti amministrativi. Prudenzialmente, l’adozione delle nuove modalità valutative sarebbe da riferire all’a.s. 2017/18, con qualche elemento anticipabile all’a.s. 2016/17, magari attraverso la prosecuzione della sperimentazione in atto in materia di certificazione, opportunamente “modulata” sui principi ispiratori della delega.
Una questione di metodo
Le sovrapposizioni e le incongruenza normative, l’ampia rilevanza sociale del tema, le possibili profonde ricadute nel mondo della scuola (sia in termini di rinnovamento delle pratiche didattiche, ma anche di metabolizzazione formale) richiedono di accompagnare il percorso di elaborazione della delega legislativa con un processo di approfondimento sia di natura scientifico-culturale (attraverso focus, forum, seminari tematici), sia attraverso momenti partecipati ed estesi a rappresentanze qualificate di docenti (ad esempio, un seminario per ogni regione), utilizzando le risorse finanziarie già disponibili per le sperimentazioni delle certificazioni (I ciclo) e per la formazione sugli esami di stato (II ciclo) o quelle che saranno destinate al tema della valutazione dall’imminente Piano Nazionale per la Formazione “obbligatoria, permanente, strategica”.
* In fase di pubblicazione sul n. 4, luglio-agosto 2016, di “Rivista dell’istruzione”