La nuova formazione: tra punti di interesse e aspetti critici e ambigui
La nuova formazione: tra punti di interesse e aspetti critici e ambigui
La Formazione in servizio cambia pelle. Gli interrogativi
di Antonio Valentino
Il Piano Nazionale per la Formazione dei docenti (PNF) si configura giuridicamente come “atto di indirizzo adottato con decreto ministeriale”.
Questo significa che è un documento impegnativo, non solo perché vi si definiscono – per il terreno della formazione – le priorità e le risorse finanziarie per il trienni ‘16-‘19, ma anche (e soprattutto) perché vi si delineano le strategie con cui si intende favorire e riconoscere lo sviluppo professionale degli operatori del sistema di Istruzione e Formazione.
La parola chiave per cogliere la novità non è tanto obbligatorietà, che pure è il termine più gettonato per indicare il cambiamento in atto, quanto “sistema”.
Nel senso che la pluralità degli interventi e delle modalità formative (dai seminari ai gruppi di ricerca didattica, dalle attività on line alla documentazione e realizzazione di buone pratiche …), ma anche gli strumenti e le strategie, costituiscono, nelle previsioni, un insieme organico nel quale sono centrali il coordinamento e la sinergia.
Quindi non solo pluralità di opportunità, ma anche luoghi e risorse che – se le cose vanno a buon fine e non ci si perde per strada o si svia – permettano (come dice il Documento”):
- di “leggere” e “rafforzare” i vari aspetti della professionalità, lungo tutta l’arco della vita professionale dei suoi operatori,
- di “armonizzare” le opportunità formative dei piani delle singole Istituzioni Scolastiche (IS), di quelli delle reti di scopo e dei piani nazionali,
- di “documentare”, attraverso dispositivi come il portfolio professionale e il piano di crescita professionale, il progressivo sviluppo di competenze previsti dall’Atto di indirizzo.
Nel Documento ministeriale c’è però anche – per chi ci crede – un accenno “alle prospettive di carriera dei docenti in termini di legittimazione strutturale delle attività condotte” (sic! Tradotto dal burocratese ministeriale: possibilità di sviluppo di carriera, senza spiegare come, attraverso percorsi di formazione opportunamente attestati). Che fa il paio con l’affermazione secondo cui il Piano nazionale “… costituisce il presupposto informativo e strategico per affrontare il tema della valorizzazione della carriera dei docenti.”. Di altrettanto apprezzabile e limpida scrittura.
Questi richiami solo per dire che ci troviamo di fronte a un Documento nel quale è necessario distinguere la sostanza dal fumo.
Qui interessa però mettere l’accento sulle tre finalità precedenti, indicati nel testo ministeriale come “la missione” del nuovo sistema. E leggerle congiuntamente all’impegno finanziario del governo (nell’ultimo capitolo del PNF si parla di circa un miliardo e mezzo nel triennio – che non sono proprio bruscolini – tra risorse previste dalla Legge, fondi europei e quelli ex lege 440).
Che l’Amministrazione poi consideri l’intera operazione sulla formazione come il terreno su cui conta di più, anche per recuperare un po’ di immagine, lo si capisce dallo strumento scelto per il documento – il decreto ministeriale -.
Si tratta con buona evidenza di segnali promettenti.
Interrogativi e problemi – come in tutte le operazioni di un certo peso – ovviamente non mancano: Come funzionerà? Quali i punti controversi e le debolezze di sistema, evidenziabili nella struttura del Piano? E ancora: Con quali strumenti, attenzioni e strategie assicurare sinergie a livello di sistema tra i vari soggetti interessati alla partita? Quali i punti di attacco da privilegiare (eventualmente)? E più in generale: quali linee guida a cui dare centralità per una formazione che conti? Ma, soprattutto: quale il modello di scuola di riferimento?
Una operazione in salita. La comunicazione e l’ascolto: due condizioni per uscirne (forse)
Nell’affrontare questi interrogativi, occorre avere anche la consapevolezza – in primo luogo, penso, tra i DS – che si tratta di un’operazione tutta in salita. Perché, dopo le vicissitudini dell’attribuzione del bonus per i “meritevoli” e i pasticci estivi sulla mobilità (a cui vanno aggiunte le incertezze sulle reti), diventa una operazione problematica coinvolgere soprattutto i docenti.
Avere questa consapevolezza e trovare – a partire soprattutto dai livelli alti – modi e strumenti, per creare almeno un clima di ascolto perché la comunicazione passi, si presenta – penso – nell’attuale situazione come un punto non trascurabile.
È convincimento diffuso che il discorso sulla formazione – data la sua centralità – avrà senso e valore se riuscirà a passare, in modo significativo, attraverso una informazione serena e un conseguente e auspicabile recupero di protagonismo almeno della parte più attiva dei docenti.
Ma anche se, contestualmente, offrirà garanzie e assicurazioni
- che non si tratta di una operazione dall’alto;
- che non ci troviamo di fronte all’ennesimo adempimento formale e a conseguenti “molestie burocratiche” (che è un rischio sempre presente con l’Amministrazione che ci ritroviamo)
- che (soprattutto) la riapertura della fase contrattuale, guardando ai cambiamenti richiesti dalla riforma e alla situazione retributiva, sia un impegno non rinviabile.
Va però detto che, per quanto riguarda la comunicazione, il Documento ministeriale non aiuta, a partire dal numero delle pagine: 88 (ottantotto!). E, per giunta, una modalità comunicativa sbagliata e sviante: per il linguaggio, enfatico e pretenzioso; per la tendenza di partire sempre da Adamo ed Eva; per le ripetizioni di concetti così numerose che neanche un tema insufficiente della maturità; per la presenza di contenuti che non c’entrano o c’ entrano solo marginalmente; per il tono diffusamente assertivo e quindi fastidioso: con tutti quei “ci sarà”, “si dovrà”, “con questo sistema sarà possibile ….” che sembrano dare quasi per raggiunti o facilmente raggiungibili traguardi che sono invece molto complicati.
Una percezione non solo percezione
Questo, in generale.
In particolare, il punto su cui si vuole qui ragionare è la complessiva impostazione di tipo sostanzialmente dirigistico e top down del PNF: il livello nazionale che detta le regole e fa le sue operazioni destinate a cadere a cascata sul livelli sottostanti; il sottostante livello regionale che coordina e gestisce le reti di ambito; queste a loro volta che coordinano e promuovono l’offerta formative delle reti di scopo.
In questa impostazione le scuole sembrano perdere il loro ruolo di soggetti attivi e protagonisti – come dovrebbe essere – dell’operazione.
Risulta infatti piuttosto opacizzata, se non proprio rimossa – nonostante qualche affermazione isolata del Documento[1] – l’idea che la vera formazione valorizza le esperienze e la messa in comune di difficoltà e problemi; e quindi la ricerca di soluzioni attraverso modalità e percorsi “situati”.
Non va certamente ignorata la situazione in cui ci si trova. E cioè
- che la formazione in servizio non gode, in genere, né di buona salute né di molta fortuna tra gli insegnanti. E questo per una serie di ragioni, spesso, tra l’altro, di tutto rispetto,
- che le motivazioni al riguardo sono pertanto piuttosto scarse,
- che l’offerta interna alle scuole ha privilegiato, quando c’era, un taglio tradizionale e poco si è preoccupata delle ricadute e delle verifiche;
- che idem si può dire, con le solite lodevoli eccezioni, dell’offerta esterna;
- che manca una tradizione e quindi un repertorio diffuso di esperienze innovative e significative su questo campo.
Non si può quindi far finta di niente di fronte ad un quadro che si presenta problematico.
Adottare strategie formative diversificate, a seconda delle situazioni e del tipo di bisogno
– integrando virtuosamente i processi di formazione strettamente connessi al lavoro d’aula e alla progettualità di istituto, con una offerta formativa “esterna”, sia pure governata da Piani nazionali – appare pertanto una modalità operativa da cui non si potrà prescindere.
Ma la percezione che si ha, leggendo il Documento, è che la visione prevalente sia, anche sul versante della formazione, di tipo centralistico. E questo rappresenta un elemento di debolezza e quindi un limite a cui contrapporre – se la percezione è confermata nelle scelte del MIUR e degli USR – idee guida che la ricerca e l’esperienza internazionale indicano come più efficaci e interessanti.
Qualche idea guida. La formazione che conta
Ne ho già accennato, ma è il caso di riprenderle e precisarle.
- In primo luogo l’idea della valorizzazione delle esperienze professionali: per sottolineare ulteriormente che la formazione che conta è quella che si fa sul campo; che si cresce professionalmente se si è aiutati a crescere dentro il proprio ambito lavorativo, attraverso la capacità di riflettere sulle proprie esperienze, di confrontarsi con i propri colleghi, di saper ascoltare e ripensare il proprio vissuto professionale.
Questo significa concretamente ripensare la scuola come organizzazione che apprende (Learning Organization: da quanto se ne parla!) e i vari spazi di lavoro (dalla classe ai Cdc, dai dipartimenti ai gruppi di progetto ….) come ambienti organizzati di formazione e di “apprendimento continuo”.
Ma si ha l’impressione che certe idee qualificanti – su cui da almeno un paio di decenni si fa ricerca e sperimentazione internazionale che ne evidenziano la praticabilità e l’efficacia – sembrano messe lì per essere spese “ad effetto” in qualche convegno ministeriale o para ministeriale.
- Se i ragionamenti più sensati sulla formazione partono allora dalla riflessione sul proprio campo di esperienze (ovviamente dentro spazi organizzati con queste finalità), il primo e principale punto d’attacco (non l’unico, certo) è mettere a fuoco l’idea di scuola come comunità professionale, cioè luogo dell’appartenenza e dell’identità (nozione anch’essa presente nella L. 107, ma come specchietto per le allodole – mi sembra -); all’intermo della quale promuovere e favorire vere e proprie “ comunità di pratiche”[2]; cioè luoghi dello scambio di conoscenze ed esperienze, della ricerca-azione comune, della condivisione degli strumenti, dell’aiuto reciproco, visti come momenti di formazione.
Nella prospettiva di una nuova formazione, l’attenzione prioritaria dovrebbe perciò essere volta soprattutto a sostenere le scuole nella progettazione e realizzazione di Piani interni che privilegino queste idee – chiave.
In tale visione, le reti di ambito dovrebbero quindi essere soprattutto strutture di coordinamento e servizio, più che strutture sovra-ordinate.
Un approccio difficile e anche complicato. Può valere la pena?
Certamente un approccio che privilegi scelte di questo tipo è indubbiamente più difficile. Perché
- si scontra con una visione ancora largamente diffusa dell’insegnamento come spazio privato e dell’autoreferenzialità; e anche dell’individualismo come merce preferita tra gli insegnanti ;
- non considera il peso dei modelli di cultura professionale – centrati sull’insegnamento frontale, cattedratico – che ci si porta dietro dalle esperienze scolastiche da studenti[3]”;
- non c’è – come già dicevo – una tradizione di cui avvalersi;
- manchiamo di una cultura organizzativa e di una cultura progettuale diffuse anche tra gli stessi DS e le altre figure apicali – come si dice – del sistema scuola.
Anche solo a considerare le ragioni precedenti – e le altre di cui si è detto e che non sono di poco conto – ci sarebbero sufficienti motivi per dubitare della riuscita dell’operazione che si sta mettendo in piedi; ma ce ne sono forse altrettanti, e ben validi, per accettare – come pianeta scuola nel suo insieme – la sfida che lancia il PNF; e per cercare di rimuovere – o, almeno, ridimensionare – gli ostacoli più seri e radicati. Considerando soprattutto che l’attuale situazione non fa piacere, né conviene a nessuno.
Se si accetta la sfida, diventa però importante riportare in primo piano due aspetti nodali del Piano Nazionale: quello della obbligatorietà, che pure viene impostato in termini condivisibili nel capitolo 6 su “la formazione in servizio …”, e quello delle connessioni tra tre capisaldi della riforma: la formazione (appunto), la valorizzazione del merito e le reti.
Se ne potrebbe eventualmente parlare in una successiva riflessione.
—————————————————————————————————————————————————————————————————
[1] ( “La formazione che lascia il segno si basa su un confronto tra pari e sulla rielaborazione critica delle esperienze didattiche …”. (punto 5.4 del Documento): Una affermazione solitaria che non trova sviluppi e traduzione organizzativa in un Piano che riporta addirittura le domande per costruire i modelli per la valutazione delle attività formative ed esempi di destinatari delle nove priorità nazionali!
[2] Shon, Wrangel e altri, primi anni 90. Più o meno in quegli stessi anni o subito dopo, da noi Piero Romei parlava di Unità Operative -UU.OO -. Queste elaborazioni ruotano intorno alla valorizzazione della pratica come un sistema di attività in cui il sapere non è separato dal fare.
È tale valorizzazione che dà all’esperienza lavorativa una particolare rilevanza come fonte e campo di apprendimento, dove il pratico non è contrapposto al teorico e la conoscenza si precisa come attività contestualizzata, o meglio, “situata” nei luoghi dove acquista significato
[3] Si rinvia alla lezione di Jack Mezirow e alla sua ricerca e elaborazione su L’apprendimento trasformativo.