Valutazione degli alunni e promozione del successo scolastico: una contraddizione finalmente vicina alla soluzione
Valutazione degli alunni e promozione del successo scolastico: una contraddizione finalmente vicina alla soluzione
di Laura Barbirato
“Fa quel che può. Quel che non può, non fa”
Alberto Manzi, sulle pagelle dei suoi alunni
Quando la legge 517, nel 1977, rinnovò la scuola italiana dalle fondamenta, recependo le istanze nate e ampiamente sperimentate “sul campo” da avanguardie pedagogiche illuminate, non si limitò certo a chiudere le scuole speciali e a sancire così irreversibilmente la scolarizzazione dei “diversi” all’interno dei percorsi educativi comuni. Corredò questa svolta epocale di tutti i necessari corollari. Generalizzò il passaggio dall’esecuzione del Programma Ministeriale alla flessibilità della Programmazione, modificò interamente il sistema di valutazione sostituendo, nella scuola di base, ai voti numerici le definizioni su scala qualitativa. Un passaggio che ci appare ovvio: la presenza in classe della diversità esigeva diversità nella progettazione didattica; non si poteva più pensare che un’unica traccia programmatica potesse andar bene per tutti e voler valutare misurando con i numeri era impossibile. Valutare significa dare un valore, adattandosi a ciascuno secondo il suo valore: un concetto che va ben oltre la mera “misurazione”!
Dopo successivi passaggi, che hanno visto per un periodo anche l’introduzione delle valutazioni per livello espresse da lettere alfabetiche, nel 2008 la legge 169 (Gelmini) ha disposto il ritorno ai voti, stabilendo l’obbligo della sufficienza in tutte le materie, compreso il comportamento, per poter accedere alla promozione. La svolta è avvenuta in un clima in cui la qualità della scuola veniva fatta dipendere dal suo “rigore” sanzionatorio (una scuola tanto più sarebbe seria quanto più è selettiva), quasi che gli scarsi risultati del nostro Paese in materia di istruzione potessero dipendere da un eccesso di lassismo “buonista”. Peccato che i Paesi che stanno nelle prime posizioni nelle classifiche Ocse-PISA praticamente non contemplino la bocciatura, almeno nella fascia della scuola di base!
La reintroduzione dei voti provocò qualche resistenza, presto smorzata. Eppure abbiamo assistito anche ad esiti tragici, a seguito di voti umilianti o di bocciature ripetute (si ricordi, uno per tutti, il caso del liceo Berchet di Milano).
Il Ministro dell’istruzione francese qualche anno fa ha proposto l’abolizione della bocciatura. Dati alla mano, si dimostra che non è utile a migliorare l’apprendimento, produce dispersione ed abbandono. Un fenomeno questo che ha raggiunto dimensioni preoccupanti in Italia, che ha costi elevatissimi sia sociali che economici e che evidenzia, inequivocabilmente, come nel nostro sistema di istruzione ci sia qualcosa di sbagliato.
Il problema dispersione, legato direttamente o indirettamente alla presenza a scuola di alunni diversi, quelli che ora chiamiamo più in generale BES- includendo oltre ai disabili anche tutti gli altri studenti che, per qualsiasi motivo, non riescono ad affrontare il curricolo scolastico senza un aiuto aggiuntivo – ha riportato all’evidenza la riflessione sul tema della valutazione, il vero nodo del problema, in gran parte lasciato irrisolto dalle ambiguità normative. Infatti, se da una parte abbiamo un complesso di norme che sollecita la scuola a promuovere il successo formativo di tutti e di ciascuno, adottando criteri di valutazione personalizzati, ancora gli adattamenti da applicare in sede di esame promessi dalla C.M. n.8/2013 non hanno visto la luce e la norma specifica di riferimento è ancora la Legge 169/2008.
La valutazione è ancora, in larga misura, nella pratica quotidiana, un processo che pone l’allievo come controparte. Andrebbe invece considerata qual è, un processo che coinvolge dinamicamente più parti e la parte della scuola e degli insegnanti è quella cui spetta la responsabilità determinante. La questione dovrebbe avere risvolti ben diversi, soprattutto se ci si trova all’interno di percorsi scolastici che costituiscono obbligo di istruzione. In questo caso è ancora più forte la responsabilità dell’istituzione scolastica. Spetta alla scuola accompagnare l’alunno nel suo percorso, compreso il biennio della secondaria di secondo grado che a pieno titolo rientra ora nella fascia dell’obbligo. “Rimuovere gli ostacoli” è un obbligo costituzionale: vuol dire prendersi cura attivamente del successo formativo degli allievi, non semplicemente consentire a tutti l’accesso all’istruzione scolastica!
Così com’è esercitata oggi, alla luce della Legge 169/2008, la valutazione porta spesso ad esiti inappropriati, nella misura in cui non riesce a flettersi all’interno di un rapporto di insegnamento-apprendimento inteso come relazione. L’educazione è una dialettica, per dirla con Makarenko. Invece la valutazione viene spesso confusa con la misurazione unidirezionale, e quest’ultima sfocia poi in un giudizio.
Ma misurare vuol dire utilizzare una scala numerica ove sia presente un punto zero (corrispondente a nessun apprendimento) e un punto massimo (l’apprendimento completo), con intervalli costanti tra i valori; aver chiarito obiettivi ed aspettative; utilizzare grandezze omogenee. Anche trascurando il fatto che le aspettative di apprendimento non sono quasi mai note agli studenti (al punto che arrivano a pensare che, per prendere un bel voto, l’elemento determinante è capire quale sia la fisima dell’insegnante), occorre riflettere sul fatto che gli estremi della scala (il nulla e il tutto) non sono facilmente determinabili. Infatti i punti estremi della scala non vengono usati quasi per niente.
Un ragazzo che prende 5 sa la metà di quello che prende 10? Tra il 5 e il 6 c’è la stessa distanza che c’è tra 9 e 10 o tra il 2 e il 3? Il fatto che a metà della scala proliferino i voti di mezzo (5 ½,5+, 5-, 5=, 5/6…) ci fa capire che gli intervalli tra i valori non sono uguali! Eppure questi numeri si usano “come se” si trattasse di una scala ad intervalli, facendo addirittura la media aritmetica. Al massimo ci troviamo di fronte ad una scala ordinale, nulla di più. Nessuna operazione aritmetica al suo interno ha valore.
Un’interrogazione e un compito scritto si possono considerare compiti omogenei (grandezze omogenee)? Possiamo omogeneizzare i numeri che ne esprimono la misura e tirar fuori una media?
Le disposizioni di legge più significative sul tema della valutazione nello spirito si discostano completamente da questo modo di esprimere la “misurazione” degli apprendimenti:
“Le istituzioni scolastiche concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili a realizzare il successo formativo” (DPR 275/99, Regolamento in materia di autonomia, art. 4, co.1). “Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende (…) le strategie didattiche devono sempre tener conto della singolarità e della complessità di ogni persona, delle sue capacità, delle sue fragilità nelle diverse fasi di sviluppo”(Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola di base, settembre 2012).
Come si concilia la necessità di porre al centro del rapporto educativo l’allievo, flettendo in tal senso l’intervento della scuola, con una valutazione selettiva e punitiva, che traspare dalla Legge 169/2008? Come si concilia l’obbligo di promuovere le potenzialità dell’alunno e valorizzarne le diversità con un meccanismo di misurazione delle sue prestazioni tarato su un livello standard e non adattato alle sue peculiarità? Ancor più, com’è possibile farlo con soggetti che rientrano nella fascia dell’obbligo? La contraddizione è evidente. Se si stabiliscono meriti e demeriti riesce difficile accogliere ed accettare i percorsi diversi dei singoli. In quest’ottica, anche le prove INVALSI, quando utilizzate per valutare il singolo piuttosto che il Sistema Nazionale (vedi esami di Stato al termine del primo ciclo d’istruzione) sono completamente fuori luogo. In quest’ottica, non si possono comprendere né applicare le modalità di valutazione attualmente in uso, previste dalla Legge 169/2008, senza incorrere in forti contraddizioni.
A questa condizione porrà finalmente rimedio il prossimo Decreto Legislativo di attuazione dell’art. 1, commi 180 e 181, della Legge 13 luglio 2015, n.107.
L’ampia ed efficace disamina che ne fa il documento recentemente pubblicato dall’ANDIS, in conseguenza della ricca discussione effettuata al Seminario Nazionale di Vico Equense il 14-15 ottobre 2016, ha il pregio di legare l’analisi sulla necessità di ricondurre la valutazione alle sue dimensioni formative e promozionali, con la sua interfaccia progettuale e didattica.
L’atteso decreto legislativo sarà fondamentale non solo per rendere possibile un sistema di valutazione degli apprendimenti e degli esami di Stato in linea con le indicazioni nazionali (per il primo ciclo e per i licei), le linee guida (degli istituti tecnici e professionali), ma anche per indurre una didattica e una metodologia innovative, capaci di costruire competenze e di flettersi sulle esigenze dei diversi allievi presenti nelle nostre classi. Le novità previste sono tante (dall’abolizione dei voti numerici nel primo ciclo al divieto della bocciatura alla scuola primaria, al riposizionamento delle prove INVALSI all’interno degli Esami di Stato…) e tutte vanno nella direzione del ripristino di una valutazione sincera e chiara, piuttosto che inutilmente selettiva, che sposti l’interesse dai voti-etichetta agli apprendimenti effettivamente realizzati, che offra informazioni per il miglioramento continuo delle prestazioni, per il docente oltre che per lo studente.
Va riconosciuto che gli insegnanti spesso applicano gli strumenti della valutazione senza aver elaborato appieno il senso di questa azione nel contesto della professione, in una condizione di autoreferenzialità. Non si è insegnanti bravi quando si boccia, tanto quanto non lo si è quando si lascia correre. Si è bravi insegnanti quanto più si riesce a dar fiducia ai propri allievi, a scommettere sui loro progressi, a capire i loro bisogni e ad indirizzarli perché sviluppino al meglio le loro potenzialità, comunicando loro, “contagiando” oserei dire, il desiderio di sapere e conoscere. Il bravo insegnante non è quello che giudica, ma quello che valuta senza sanzionare, stimolando l’alunno ad imparare ad autovalutarsi ed utilizzando gli esiti dell’alunno come feed-back per il proprio lavoro di insegnamento. Il buon insegnante crea un clima non competitivo in cui l’alunno sia spinto ad esprimersi al meglio, senza farsi condizionare dalla paura di sbagliare.
La valutazione non è l’esercizio di un potere. Eppure spesso viene ancora utilizzata impropriamente, con finalità di controllo della disciplina (“Se non state zitti vi do un 2!”), oppure per sanzionare, con un voto sulla materia, un comportamento sbagliato (“Non hai portato il libro di francese e allora ti metto un 4”). Poco importa che le norme lo vietino: atteggiamenti di questo tipo, molto diffusi, confermano che sul tema della valutazione molto c’è da riflettere. A cominciare dal fatto che chi valuta continuamente, i docenti, difficilmente accettano di rivolgere su se stessi lo stesso strumento e puntualmente tutti i tentativi di valutazione degli insegnanti facilmente naufragano.
Se la valutazione è attribuzione di un valore e non semplice misurazione, allora dobbiamo ammettere “Può solo esistere una valutazione per l’apprendimento e non dell’apprendimento, per l’allievo e non dell’allievo” .