Non basta dire: “obbligatoria”. A proposito di formazione in servizio e questioni connesse.
Non basta dire: “obbligatoria”.
A proposito di formazione in servizio e questioni connesse.
di Antonio Valentino
L’interrogativo di partenza: correggere o bloccare?
Appena conosciuto l’esito del referendum, si è sentito invocare, da parte di settori del mondo della scuola, il blocco dei processi partiti con la recente legge di riforma sulla scuola, in concomitanza con le dimissioni del governo Renzi e la previsione di uno nuovo governo.
L’obiettivo in queste posizioni è chiaro: affossare tutte le disposizioni messe in campo dallo scorso anno: da quelle sulla “valorizzazione del merito” e sull’organico “potenziato” a quelle sull’alternanza scuola-lavoro e sulla cosiddetta chiamata per competenze; dal PNF alle Reti di ambito. Ma anche: azzerare i lavori avviati sulle Deleghe. Per tornare allo status quo ante.
Siccome però le esperienze e le riflessioni maturate sulla riforma hanno permesso di evidenziarne gli aspetti particolarmente “indigesti”, ma anche direzioni di lavoro per correggerla o migliorarla nei punti più controversi, penso che ragionare in termini propositivi sia forse l’esercizio di cui abbiamo più bisogno.
Discontinuità certamente, quindi, soprattutto nella gestione dei vari aspetti della Legge e nelle relazioni con gli organismi che rappresentano il mondo della scuola. Ma all’insegna delle correzioni più opportune, per recuperare un rapporto positivo soprattutto con gli insegnanti, allo stato attuale, molto critico.
È questa comunque l’ottica che qui si assume riguardo alla partita del PNF che si vuole riprendere con le riflessioni seguenti.
Ne ho parlato recentemente in termini generali[1].
Qui si vuole ragionare soprattutto su un suo aspetto nodale: l’obbligatorietà della formazione.
Sulla obbligatorietà.
L’aver chiaramente affermato – nel Documento ministeriale sul Piano Nazionale per la Formazione in servizio (PNF), allegato al Decreto Ministeriale 797 del 19.10.2016, di cui è parte integrante – che la formazione dei docenti è non solo un diritto, ma un obbligo, non è – penso -cosa da poco. Cambia molto. Può cambiare molto.
L’obbligatorietà della formazione può apparire ovvia, soprattutto in un mestiere come quello dell’insegnante, in cui aggiornare, rinnovare, sviluppare saperi e competenze professionali sono attività fondamentali. Però di fatto finora non è stato così.
C’è stata, nella metà degli anni ’90, il tentativo di inserire l’obbligatorietà in un rinnovo contrattuale, legando la frequenza di corsi di aggiornamento al godimento di scatti stipendiali (i così detti “gradoni”). Ma non ebbe fortuna e fu abolito col contratto successivo.
Chi l’ha vissuto, ricorderà certamente la partecipazione ai corsi che si è registrata nella maggior parte dei casi: demotivata, svuotata di ogni tensione di sviluppo professionale; e poi la corsa all’attestato, con l’unico obiettivo di raggiungere il numero delle ore previste dal contratto e necessarie per avere diritto allo “scatto”. Obbligatorietà formale; crescita professionale vicino allo zero.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e certamente il Documento ministeriale sul PNF riflette un livello avanzato di elaborazione su questa tematica.
Sulla obbligatorietà però non tutto è ancora chiaro nel testo ministeriale. Perciò è importante ritornarci su nelle varie sedi competenti.
Va comunque valutata positivamente la scelta, dietro suggerimento delle parti sociali, di evitare, la quantificazione, almeno in questa fase, delle ore da dedicare obbligatoriamente alla formazione (tra l’altro una scelta diversa avrebbe cozzato contro quanto previsto dal CCNL in vigore).
Certo, rimane l’interrogativo: che senso ha un obbligo se non se ne può verificare l’assolvimento.
Interrogativo che lasciamo momentaneamente sullo sfondo. Per concentrarci soprattutto su come il Documento ministeriale affronta la questione.
Non sembra esserci, in primo luogo, adeguata chiarezza che l’obbligatorietà non risolve il problema dello sviluppo professionale, che è la sola prospettiva che dà senso e valore alla formazione. L’obbligo è importante e fondamentale, ma non risolve il problema.
Occorrerebbe perciò, nella situazione attuale, insistere soprattutto sugli elementi motivanti, di spinta, di interesse, anche materiale, collegabili con processi di formazione funzionale .
Né la card dei 500 euro (introdotta miratamente per formazione e consumi culturali), né il bonus per il merito mi sembrano però tali da creare motivazione e spinta per una formazione così caratterizzata.
Bisognerebbe pensare invece a qualcosa che faccia dire: “ne vale la pena”,” il gioco vale la candela”, per evitare operazioni gattopardesche e lo status quo. E prevedere anche, assieme a prioritari dispositivi efficacemente motivanti (ne parlerò nel punto successivo), vere e proprie misure di contrasto nei confronti di comportamenti estranei al dovere della formazione, oltre che all’etica professionale.
Sulle connessioni formazione/valorizzazione della professionalità/reti
A me sembra che la spinta motivante possa essere cercata allargando il ragionamento alle connessioni della formazione con altri aspetti della riforma. Per derivarne indicazioni utili. Andrebbe per esempio considerato – con riferimento alla la valorizzazione della professionalità (il “bonus ai meritevoli”) – il senso e le ricadute del meccanismo previsto dalla legge di riforma sotto il profilo della motivazione alla formazione. Un primo bilancio ci dice, in modo inequivoco, che la scelta al riguardo della L. 107 non è stata certamente felice . Perché, di fatto, “poco significativa ” a più livelli.
La valorizzazione del merito è un valore forte solo se spinge al miglioramento delle competenze e dei risultati del fare scuola adottando meccanismi che prevedano in concreto misure come la progressione economica e lo sviluppo di carriera (verso ruoli di maggiori responsabilità, come ad esempio la Dirigenza Scolastica e la Dirigenza Tecnica; o verso ruoli, sempre legati al mondo della scuola, ma “agiti” dentro istituzioni / strutture collaterali di coordinamento, supporto, potenziamento …) .
Perciò se vogliamo che la formazione prevista parta davvero col piede giusto, si dovrebbe pensare a dispositivi diversi. Per esempio, ad un sistema di crediti (didattici, professionali, formativi) e portfolio – come quello prefigurato nel primo progetto della Buona Scuola, senza però la soglia brunettiana del 66% dei docenti da “promuovere” – collegati a progressione stipendiale e sviluppo di carriera.
In tale approccio alla questione, per esempio, i crediti “formativi” (acquisibili attraverso la partecipazione a momenti di formazione professionale) varrebbero non solo e non tanto perché si è partecipato a percorsi di formazione (e se ne ha attestazione formale), ma perché le possibili correlazioni con i crediti “didattici” permetterebbero di cogliere e apprezzarne le eventuali “ricadute” sul lavoro di classe e sulle iniziative di Istituto.
Non andrebbero sottovalutate neanche le misure volte a contrastare comportamenti che tendono ad evitare, per periodi prolungati, ogni forma di cura della propria professionalità, associati a pratiche professionali non all’altezza del ruolo.
La previsione, al riguardo, di misure come il trasferimento ad altro ruolo, in casi circoscritti e ben precisati, non dovrebbe essere più considerata una provocazione o addirittura una bestemmia.
Anche il nesso formazione-reti di ambito è potenzialmente importante per realizzare le novità della riforma sul fronte dello sviluppo professionale. Come sappiamo, la rete di ambito è, nelle previsioni ministeriali (anche se il quadro al riguardo sembra essere giuridicamente problematico), struttura rilevante della nuova governance del territorio; attraverso accordi mirati, essa è chiamata sia a garantire alle scuole le risorse necessarie per dare concretezza al loro piano; sia a favorire soprattutto la costituzione, il funzionamento e coordinamento di reti di scopo anche per la formazione; oltre a funzioni di supporto ai Piani – sempre riguardanti la formazione – che le scuole sono tenute a inserire nel PTOF.
Un ruolo quindi che, per essere efficace e significativo, deve sapersi raccordare, in quanto elemento del sistema, con gli Uffici regionali; ma deve soprattutto saper raccogliere, rappresentare e coordinare la domanda di formazione; e dare ad essa risposte adeguate.
Ma deve in primo luogo saper evitare pastoie burocratiche e operazioni dirigistiche, attraverso una struttura operativa riconoscibile e funzionale e condizioni facilitanti per le scuole capofila e le scuole polo.
Considerato che agli ambiti verrà attribuita la gestione del 60% delle risorse disponibili (intorno ai 300 milioni, se non sbaglio), assicurare in ogni caso fondi alle scuole, perché in autonomia provvedano alla gestione del loro piano, è scelta imprescindibile, se non si vuole compromettere alla base l’autonomia delle istituzioni scolastiche e rinvigorire visioni neo centralistiche del sistema.
Direzioni di lavoro
Sembrano importanti, in questa fase, soprattutto tre passaggi, in qualche modo obbligati e consequenziali, per dare risposta persuasiva all’interrogativo di partenza e ai dubbi su senso e appetibilità della formazione e sulla sua fattibilità in termini sostanziali:
il primo : Rendere motivante la formazione all’interno delle scuole, attraverso dispositivi organizzativi e promozionali e supporti, a richiesta, da parte delle reti di scopo operanti nell’ambito;
il secondo: “Rafforzare” (sostenere, attrezzare) i “luoghi”del lavoro collegiale (CdC, dipartimenti, gruppi di progetto ….), per rendere possibile la loro trasformazione in “comunità di pratiche” (che non è una formula magica);
il terzo: riconoscere le attività funzionali, strutturate e connotate, come attività di formazione – autoformazione sul campo e come tali assolventi l’obbligo formativo (ci sono accenni anche nel documento ministeriale).
È una idea, quest’ultima, non nuovissima, che andrebbe ripresa, approfondita e precisata.
Probabilmente in questa ottica, l’interrogativo sulla verificabilità dell’obbligo formativo mi sembra assuma connotazioni diverse e probabilmente molto meno problematiche, se considerato alla luce non solo di misure motivanti, assunte come strategiche; ma anche di possibili azioni di contrasto, ove il caso.
Per uscirne bene
Dall’insieme dei ragionamenti qui svolti, emerge come aspetto fondamentale la centralità del ruolo dei DS e delle figure di funzionamento e coordinamento didattico-organizzativo delle scuole (cioè la squadra dei disponibili e dei motivati “a prescindere”, che costituisce la vera forza dei nostri Istituti e che va particolarmente sostenuta e coltivata, non per farne dei capetti, ma piuttosto delle leve per il miglioramento dentro una leadership di scuola condivisa) .
Molto dipenderà da loro (e in misura ovviamente maggiore dal DS): da come sapranno motivare, rapportarsi e coinvolgere i docenti oltre il numero dei “soliti”; ma anche da come sapranno coordinarsi a livello di ambito e comunicare la consapevolezza:
- che la partita della crescita professionale è centrale rispetto a tutto:
- che i tempi della partita sono, a differenza che nel calcio, parecchio più di due;
- che per uscirne bene bisogna essere attrezzati e avere respiro lungo.
Che però ci voglia, in primo luogo, un buon contratto, non è consapevolezza che ha bisogno di essere sollecitata ed evidenziata.
[1]V. soprattutto La nuova formazione: tra punti di interesse e aspetti critici e ambigui, su questo stesso sito.