Gennaio 4

Formazione: partire col piede giusto

gFormazione: partire col piede giusto
di Antonio Valentino

 

Probabilmente il Documento ministeriale sul Piano Nazionale per la Formazione in servizio (PNF), allegato al Decreto Ministeriale 797 del 19.10.2016, è quello destinato a incidere più profondamente nella vita della scuola, se ovviamente funziona. Ne è consapevole lo stesso Ministero che è ricorso allo strumento legislativo del DM per  sottolinearne il valore strategico e che ha messo a disposizione dell’operazione formazione risorse importante se paragonate a quelle degli anni precedenti.

Si tratta però, come è evidente da una serie di dati sulla situazione attuale delle nostre scuole, di una operazione in salita, il cui successo è legato soprattutto alla capacità del MIUR di fare chiarezza su alcuni nodi concettuali e di rimuovere alcuni oggettivi impedimenti per il successo del Piano[1].

Qui si richiamano per titoli gli orientamenti che il dibattito degli ultimi mesi  ha fatto emergere come particolarmente rilevanti per superare opacità e contraddizioni del testo ministeriale. E cioè  che:

  • che la formazione che conta è soprattutto (anche se non solo) quella che si fa sul campo (formazione “situata”, che lo studio e la riflessione individuale rendono solida e promettente),
  • che il successo del Piano dipende molto dalle modalità previste per la valorizzazione della professionalità e che, quindi, se queste non funzionano, la nuova formazione difficilmente potrà decollare,
  • che le reti di ambito vanno viste soprattutto come strutture di coordinamento e servizio, più che strutture sovra-ordinate (che possono risultare ingabbianti se prevalgono logiche burocratiche e neocentralistiche),
  • che l’obbligatorietà non risolve il problema dello sviluppo professionale, che è la sola prospettiva che dà senso e valore alla formazione.

La riflessione che segue  intende riprendere quest’ultimo orientamento  per approfondirlo sotto alcuni versanti che si ritengono particolarmente rilevanti.

Tre passaggi obbligati

In questa fase, soprattutto  tre passaggi, in qualche modo obbligati e intrecciati, potrebbero contribuire a costruire risposte persuasive ai dubbi su senso e appetibilità della formazione e sulla sua fattibilità.

Il primo : Rendere motivante la formazione  all’interno delle scuole, attraverso dispositivi, organizzativi e promozionali, e supporti a richiesta, da parte delle reti di scopo operanti nell’ambito. Al riguardo  andrebbe definitivamente accantonata in modo programmatico la modalità finora più gettonata: le conferenze  cattedratiche tutte  giocate sulla lezione frontale. Le nuove pratiche dovrebbero pertanto attestarsi sulle modalità innovative già sperimentate e documentate soprattutto nel sito dell’INDIRE,  selezionando di volta in volta quelle più adatte alle specifiche situazioni e studiandone le possibilità di successo.

Tra le modalità innovative particolare attenzione e impegno dovrebbe essere dedicati a tutte quelle attività che siano in primo luogo risposta ai problemi del fare scuola e modalità concreta per realizzare i miglioramenti previsti dal PdM.

Va a questo punto ripreso e sottolineato ancora una volta che fattore comunque determinante è il superamento dell’attuale modalità di valorizzazione della professionalità che ha creato nella maggior parte dei casi più  problemi che situazioni positive,  attraverso meccanismi che colleghino formazione e sviluppo di carriera e progressione economica. Se ne dovrebbe cominciare a parlare da subito in termini propositivi e prospettando la adozione di nuove misure a partire dalla conclusione della sperimentazione triennale in atto.

Il secondo (che potrebbe rientrare nel primo, ma che è bene abbia una sua specifica collocazione, data la sua rilevanza):  riconoscere le attività funzionali,  opportunamente strutturate e connotate, come attività di formazione – autoformazione sul campo e come tali assolventi l’obbligo formativo (ci sono accenni anche nel documento ministeriale).

È una idea, quest’ultima, non nuovissima, che andrebbe ripresa, approfondita e precisata.

Il terzo: “Rafforzare” (sostenere,  attrezzare) i “luoghi”del lavoro collegiale (CdC, dipartimenti, gruppi di progetto ….), per rendere possibile la loro trasformazione in “comunità di pratiche” (che non è una formula magica[2]). Passaggio particolarmente impegnativo ma non impossibile come dimostrano sperimentazioni realizzate anche nel nostro paese[3] in quanto prevede una direzione dell’Istituto (Dirigente scolastico e figure più coinvolte nella leadership educativa di Istituto), impegnata soprattutto a

  1. collocare tempi e attività, a carico delle singoli “luoghi”, nel contesto ordinario di lavoro collegiale dei  Il che significa guardare al  Piano annuale delle Attività  (che si delibera – come prevede il CCNL in vigore – all’inizio dell’anno scolastico),   con intenzionalità che tendano a coniugarsi con le finalità del PNF;
  2. mettere a fuoco strumenti operativi  e prevedere risorse  che valgano a favorire /promuovere comportamenti organizzativi e professionali indispensabili per la prospettiva indicata, (dallo scambio di esperienze come punto di attacco nell’analisi dei problemi , alla individuazione sistematica dei punti di debolezza o inadeguatezze del gruppo;  dalla disponibilità a forme di aiuto e sostegno reciproco, a pratiche sostenibili  di ricerca-azione e  approfondimenti mirati);
  3. promuovere una cultura professionale nei componenti dei gruppi – attraverso strategie mirate da prevedere per le diverse situazioni – caratterizzata  da capacità di ascolto attivo e spirito cooperativo, da lavoro di squadra ad  aperture ad azioni di sostegno e contributi formativi esterni, in grado di integrare i momenti di sviluppo professionale “situato” (cioè: sul campo e legati al lavoro d’aula e alla progettualità di istituto) con la offerta formativa “esterna ….

Bisogna però esser consapevoli che questa prospettiva (i “luoghi” della scuola come comunità di pratiche), per quanto promettente e fondata su elaborazioni e sperimentazioni più che ventennali , presuppone modelli organizzativi, standard di funzionamento e una diversa declinazione del principio di responsabilità, che stentano a entrare nella cultura scolastica.

Due condizioni. A proposito di modello organizzativo, cultura professionale e leve prioritarie

I ragionamenti precedenti riportano in primo piano due altri campi di riflessione e di intervento da assumere un po’ come condizioni di base rispetto alle precedenti direzioni di lavoro:

  • il modello organizzativo che meglio può favorire la formazione sul campo e il suo legame stretto con il lavoro di ogni giorno dentro le classi e tra colleghi
  • la cultura professionale che caratterizza in modo diffuso le pratiche didattiche e formative dei nostri docenti e il conseguente ruolo di una formazione volta a portare a consapevolezza l’inadeguatezza – spesso inconsapevole – di quei  comportamenti e di quelle  pratiche  non più adatti a coinvolgere i giovani e a renderli tendenzialmente protagonisti.

Riguardo al primo campo, l’attenzione va posta su alcune  caratteristiche dei  diversi modelli organizzativi (per il nostro caso, soprattutto: strutture e loro articolazioni,  funzioni e figure, relazioni interne e distribuzione dei poteri, livelli di autonomia e responsabilità, percezioni dei ruoli ….) in vigore nei vari ordini di scuola; e quindi  le loro potenzialità e criticità.

Con riferimento, ad esempio, alla scuola secondaria, le linee di analisi – e quindi gli interrogativi –  riguardano essenzialmente, a mio avviso: a. le forme della collegialità e il coordinamento dei compiti, dei lavori e dei risultati;  b. la costruzione delle decisioni e la cura della loro implementazione ai vari livelli; c. le pratiche auto valutative e valutative: sia quelle interne alle varie articolazioni, sia quelle generali di istituto.

Si tratta di capire, al riguardo:

  • con quali misure e a quali condizioni le attuali asfittiche forme di collegialità potranno evolversi verso modelli di comunità professionale e le sue articolazioni (CdC, dipartimenti, commissioni, ecc) potranno funzionare come “comunità di pratiche” ;
  • a quali condizioni e in quali forme queste articolazioni  possono coordinarsi tra di loro e avvantaggiarsi reciprocamente (crescere professionalmente attraverso la riflessione su esperienze proprie e altrui);
  • con quali strumenti (risorse, dispositivi, meccanismi) – già esistenti o da prevedere – tendere a  superare le attuali fragilità degli organismi collegiali dei docenti , ridefinendone senso, modalità di lavoro e organizzazione interna.

L’altro campo è quello della cultura professionale, nel senso di modi di vedere e vivere la professione:

Di cui continuano a essere tratti prevalenti la difficoltà a fare squadra tra colleghi della stessa classe, ma anche a sentirsi dentro al progetto educativo di istituto; l’autoreferenzialità spinta e un senso di responsabilità debole rispetto agli esiti del proprio lavoro; oltre ad un disciplinarismo asfittico. Tratti che  fanno correre rischi seri alla previsione di formazione continua (strutturale e sistemica) che ha, soprattutto nella collaborazione coi pari, nella ricerca-azione e nella disponibilità a input esterni, i suoi elementi strutturali e caratterizzanti.

Si tratta di scogli molto rischiosi che solo l’attenzione  – da parte di chi ha competenze e responsabilità – alla motivazione e agli elementi di contesto (nei termini esemplificativi sopra proposto) può cercare di aggirare con qualche possibilità di successo.

Su questi terreni entra molto in gioco la capacità sia di visione strategica del DS e del gruppo dei “disponibili” e competenti (che nelle nostre scuole non mancano mai), sia di una leadership programmaticamente inclusiva .

Penso che partire nella formazione col piede giusto significhi prioritariamente fare i conti  in concreto con queste problematiche e creare un clima attrattivo attraverso misure e dispositivi all’altezza.  O no?


[1] Ne ho parlato in precedenti contributi (soprattutto in: La nuova formazione: tra punti di interesse e aspetti critici e ambigui e Non basta dire: “obbligatoria”. A proposito di formazione in servizio e questioni connesse), apparsi su questo sito rispettivamente il  27-11-2016 e il 13-12-2016)

[2] Si rinvia sul tema soprattutto a E. Wenger, Comunità di pratiche. Apprendimento, significato, identità, Cortina 2006 e a T. Sergiovanni, Costruire una comunità nelle scuole, lAS 2000. Interessante anche il contributo di C. Mion, Comunità professionale dei docenti. Riferimenti teorici e pratici, in Atti Convegno Dirigenti Scolatici FLC CGILLa Dirigenza scolastica tra questioni aperte e nuove complessità organizzative”, Napoli 3-4 maggio 2014, Edizioni Conoscenza. I  termini della questione sono ricostruiti sinteticamente in “Gli insegnanti nell’organizzazione scolastica”, pp. 63-82 (Cap. 5: Comunità di pratiche e Leadership diffusa) – Edizioni Conoscenza 2015 – dell’autore di questa nota.  

[3] V. Ivana Summa, Se il docente fa “comunità professionale”, in “Rivista dell’Istruzione” n. 6 -2014.


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Posted 4 Gennaio 2017 by admin in category articoli

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