Metafora per una riforma
Metafora per una riforma
di Nicola Puttilli
Si percepiva chiaramente una linea di continuità (dopo lunghi anni inutilmente trascorsi tra grembiulini, cacciaviti e amenità varie) tra la prima idea di autonomia delineata dall’allora ministro Luigi Berlinguer e la riforma renziana sfociata nella cosiddetta “buona scuola”. Ne erano tratti comuni alcune misure molto concrete che trovavano nella seconda la realizzazione e lo sviluppo di precisi elementi già presenti nella prima.
L’intuizione di un organico funzionale al progetto di scuola e quindi sganciato dal rigido rapporto con le classi/cattedre: è la premessa per il passaggio, da sempre atteso e mai realizzato, dalla didattica frontale e trasmissiva a una didattica attiva e (almeno parzialmente) laboratoriale; la consapevolezza che la scuola non può realizzare la propria vocazione progettuale in assenza totale di risorse (da cui i finanziamenti per funzionamento, formazione ecc. previsti dalla L 170 a fronte dei primi fondi per l’autonomia della L 440 e l’istituzione del fondo di istituto di allora); e (soprattutto) l’idea di una scuola liberata dall’abbraccio soffocante della burocrazia ministeriale e dalla relativa esuberante produzione amministrativa (lo “sblocca scuola”, ma che fine ha fatto?) a fronte del mai troppo rimpianto asserto berlingueriano secondo il quale è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato.
Più in generale compare una comune idea di scuola come asse privilegiato di sviluppo del Paese su cui far convergere attenzioni e risorse da parte del decisore politico; così come la consapevolezza, non scontata, che solo una scuola realmente autonoma sia in grado di produrre un vero rinnovamento della didattica, con lo studente finalmente al centro del processo formativo.
Non c’è bisogno di scomodare Bateson per ricordare l’importanza della metafora nella definizione/percezione di qualsiasi organismo. Come è stato possibile che una riforma nata con queste premesse abbia, quasi da subito, richiamato, nel sentire comune e anche tra gran parte della gente di scuola, la metafora della “scuola azienda” e, di conseguenza, del “preside manager” o addirittura sceriffo, nelle versioni più ruspanti?
Il dibattito e le analisi di questi mesi individuano sostanzialmente tre temi sui quali può essersi prodotta una deriva di questo tipo:
Il primo è quello del merito e della premialità, percepiti come pratica divisiva della categoria docente, da decenni esonerata da qualsiasi forma di valutazione (l’abolizione delle note di qualifica risale ai primi anni ’70);
il secondo riguarda la cosiddetta chiamata diretta che eliminerebbe presunti diritti di scelta, anche in questo caso ampiamente consolidati, per il personale docente compromettendo, secondo alcuni, la stessa libertà di insegnamento;
il terzo, non per ordine di importanza, è relativo al tema dell’alternanza scuola-lavoro, vista come una (possibile) subdola forma di sfruttamento del lavoro minorile (oltre alle numerose prese di posizione studentesche e non solo, indicativo in questo senso un recente “Caffè” di Massimo Gramellini sul ”Corriere”).
Si tratta indubbiamente di temi rilevanti, nodi critici che si prestano a letture divergenti, sui quali riprendere e approfondire il confronto che non può peraltro prescindere da una loro più ampia contestualizzazione.
Non è stato evidentemente sufficiente parlare nella L 107 di “comunità scolastica aperta al territorio” (comma 2), di “valorizzazione della comunità professionale scolastica con lo sviluppo del metodo cooperativo” (comma 3) e, ancora, di “valorizzazione della scuola intesa come comunità attiva” (comma 7 m) per far passare, in gran parte della comune opinione, la metafora della scuola come comunità democratica (che si contrappone, per definizione, alla metafora della scuola azienda).
In questo senso la possibile “vischiosità” dei processi sopra richiamati ha fatto premio sulle dichiarate intenzioni della Legge che, d’altro canto, non enuncia in modo chiaro ed inequivoco le proprie finalità. Una Legge di sistema come la 107 avrebbe dovuto dichiarare in partenza che l’obiettivo, ancora ben lontano dall’essere raggiunto, era ed è quello di correggere le carenze e le iniquità del nostro sistema scolastico al fine di migliorarne gli standard ai livelli europei e di garantire a tutti il diritto all’uguaglianza delle opportunità formative, secondo i principi costituzionali. In tale contesto la realizzazione di una vera autonomia non è mero (per quanto importante) esercizio di efficace decentramento decisionale e amministrativo, ma condizione privilegiata per il perseguimento, nella singola scuola e nell’intero sistema, dei fini enunciati di equità del sistema stesso e di sviluppo del Paese.
L’autonomia fondata su variabili di progetto (pianificazione, comunicazione, problem solving, controllo, responsabilità, rendicontazione ecc.) da strumento di razionalizzazione gestionale diventa elemento di effettiva democratizzazione solo se gli obiettivi sono quelli sopra richiamati e le modalità organizzative previste rinviano a logiche di tipo cooperativo e non competitivo. Nulla a che vedere, in questo contesto, con l’aziendalizzazione della scuola e con il cedimento a pratiche neoliberiste. Potenziare l’autonomia significa, in buona sostanza, superare il vecchio apparato centralistico-burocratico, che da sempre governa il nostro sistema scolastico, e conferire reali poteri alle scuole sottraendoli alla burocrazia ministeriale nelle sue varie articolazioni.
Questo passaggio cruciale non riuscì a Berlinguer e non è riuscito con la L 170, progressivamente svuotata dei contenuti più innovativi e sempre più infarcita, in via di attuazione, di norme, disposizioni, circolari, direttive. La burocrazia ministeriale sta facendo, al solito, molto bene il proprio mestiere che consiste nel cambiare tutto per non cambiare nulla, mentre molti tra gli stessi dirigenti scolastici fanno a gara sui social e non solo per chiedersi, con malcelata angoscia, reciproci chiarimenti sull’ultima inutile, e incomprensibile, circolare.
L’autonomia scolastica è da ormai circa vent’anni norma di legge (e che Legge, con tanto di tutela costituzionale!) ma non è diventata, se non parzialmente e nelle pur numerose eccezioni che sempre ci sono, norma di comportamento, cultura e prassi nelle nostre scuole e tanto meno nel vasto apparato che ne condiziona pesantemente risorse, modi e tempi di lavoro.
Tema centrale diventa allora l’adozione di una reale cultura dell’autonomia che passa dalla dismissione, da parte dello Stato, delle funzioni gestionali a favore delle funzioni, mai abbastanza praticate, di indirizzo, coordinamento, verifica, riequilibrio di sistema; insieme con una rinnovata e ben qualificata opera di formazione, che non può non riguardare tutto il personale della scuola, a partire dalle ultime leve dei dirigenti scolastici. A questa grande azione di trasformazione, e alla formazione soprattutto, si potrebbero ragionevolmente agganciare gli aumenti retributivi da troppo tempo attesi dal personale della scuola, anche in considerazione del ritardo storico accumulato nei confronti di altre categorie con paragonabili livelli di impegno e di responsabilità professionali (e questo vale in particolare per i dirigenti scolastici).
Il fatto che una vera cultura dell’autonomia non si sia realizzata in oltre un ventennio sta a significare che si tratta di un passaggio complesso contrastato da molteplici e forti resistenze e che non può fare a meno di alcune precise condizioni e di tempi adeguati.
Difficile parlare di gestione di organizzazioni complesse senza una leadership distribuita stabile e riconosciuta, difficile parlare di merito e premialità senza un affidabile sistema di valutazione, difficile parlare di formazione collegiale affidando (quasi) tutte le risorse a un incontrollato e incontrollabile bonus individuale, difficile, infine (ma altre se ne potrebbero aggiungere) esercitare la leadership formativa quando si scaricano sulle autonomie scolastiche e i loro dirigenti tutte le ridondanti e pletoriche pratiche burocratiche che conosciamo e che poco o nulla hanno a che fare con la funzione formativa della scuola (su come affrontare queste e altre rilevanti questioni esistono, tra l’altro, specifiche proposte da tempo formulate dall’ANDIS, l’associazione nazionale dei dirigenti scolastici).
Valutazione e merito fanno parte della cultura professionale dei docenti che la praticano quotidianamente (a volte fin troppo!) nei confronti dei loro alunni; così come non è ragionevolmente sostenibile in sé (e non fa parte della tradizione della scuola democratica) la separazione tra scuola, società e mondo del lavoro, sempre, ma in particolare in un momento di grave crisi occupazionale; perfino la sacralità delle graduatorie può essere messa in discussione, ripensando ai danni enormi causati alla continuità didattica, una volta superato faticosamente il più che decennale fenomeno del precariato.
Si tratta di temi sensibili che nella nostra scuola, per i tratti storici che la caratterizzano, possono essere affrontati e gestiti solo in una cornice di certezze democratiche e di crescita di un’autentica cultura dell’autonomia, che non si crea bruciando i tempi né inseguendo feticci. Potrebbe bastare il tempo di una legislatura cominciando da subito, avendo chiare le finalità e le priorità e aprendo un confronto aperto ma non subalterno, senza scorciatoie, con il mondo della scuola.