Gennaio 5

Piano Nazionale di Formazione anno secondo: “Speriamo che me la cavo”

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di Antonio Valentino

L’esperienza dello scorso anno: storia di un insuccesso annunciato

Dire che il primo anno del Piano Nazionale di formazione (a.s. 2016-2017), previsto dalla Legge 107, ha fatto male – parecchio male –  alla nostra scuola, è affermazione difficilmente contestabile. Il Ministero non l’ammette apertamente, ma i risultati delle iniziative, dove si è potuto portarne a termine, e la percezione diffusa, parlano chiaro. Indirettamente, la Circolare dell’8 novembre 2017 (DGPers del MIUR n. 47777) – sulla distribuzione dei fondi per la formazione docenti dell’anno scolastico corrente (il secondo del PNF) – ne offre una conferma, anche se molto indiretta, laddove ripropone, pari pari, le indicazioni operative che avrebbero dovuto funzionare nell’organizzazione e gestione dei corsi dell’anno scorso e che evidentemente non hanno dato i frutti sperati.

Non accenna ovviamente – la Circolare – alle disfunzioni e distorsioni che pure hanno caratterizzato in larga parte la progettazione e la realizzazione di quelle iniziative, né ai risultati complessivi deludenti a livello nazionale. Nè si danno dati (che tra l’altro nessuno, tra gli interessati, richiede; e questo è più allarmante), né elementi che pure potrebbero aiutare a capire cosa effettivamente al riguardo è avvenuto e correggere il tiro per quest’anno. Sarebbe interessante sapere ad esempio:

  • quanti corsi siano effettivamente partititi rispetto a quelli programmati e in quali periodi,
  • quale ruolo hanno avuto le Reti di Ambito nell’interpretare i bisogni formativi dei docenti del loro territorio e come abbiano interagito con le Scuole Polo per la formazione, nei casi in cui queste non abbiano conciso con la Scuola Capofila,
  • quale modello organizzativo sia prevalso nelle scelte degli ambiti e nelle indicazioni delle Task Force regionali e come sia stata ‘riempita’ la quota oraria (il tempo dell’Unità Formativa – UF – diffusamente prevista) destinata agli approfondimenti individuali o di gruppo sulle tematiche dei corsi,
  • quanto e come l’opzione dei bandi per la scelta dei formatori ha pesato sulla calendarizzazione dei lavori e sulla qualità dell’offerta,
  • se, infine, qualcosa è cambiato in meglio e dove, e quali ne sono gli indicatori. Se cioè si sono fatti dei passi in avanti rispetto all’obiettivo di “riconciliare i docenti alla formazione”, come pure si auspicava da più parti quando il Piano è partito.

I dubbi per quest’anno

In assenza di risposte a tali domande, e quindi di dati che ne permettano una analisi critica ai vari livelli (di ambito, regionale e nazionale), diventa complicato per i vari soggetti coinvolti pensare a possibili miglioramenti. Comunque è interessante rileggere, nella citata Circolare, che la progettazione e l’organizzazione delle iniziative formative devono tendere a

” favorire il ricorso ad attività di ricerca didattica e formazione sul campo incentrate sull’osservazione, la riflessione, il confronto sulle pratiche didattiche e i loro risultati nei contesti specifici (…);

“coinvolgere, in modo più incisivo, le strutture universitarie, le associazioni professionali, gli enti e i soggetti qualificati/accreditati, per arricchire la qualità culturale, scientifica, metodologica delle attività formative”;

“favorire una progettualità temporale più estesa, in un’ottica pluriennale, contribuendo a rafforzare l’attuale sistema di governance (scuole, ambiti, USR, MIUR)”.

Che le cose siano destinate a migliorare in questa seconda annualità è piuttosto dubbio; mancano infatti indicazioni concrete capaci di prospettare cambiamenti in meglio. Anzi qualche segnale sembra dirci che anche l’anno scolastico corrente avrà anch’esso il segno meno, ove si consideri che, se pure si cominciasse a pensare da subito alle nuove iniziative, sarebbe difficile partire prima di marzo. Inoltre, le risorse professionali disponibili per la formazione (che numericamente sono quelle che sono) molto difficilmente potrebbero rispondere alle molteplici richieste nel giro di poco più dei due mesi.

Migliorare si può

Alcuni aggiustamenti potrebbero essere comunque presi in considerazione da subito.

Sono proposte emerse da più parti alla fine dello scorso anno scolastico; le quali, anche se non sono tali da avviare un percorso veramente innovativo e motivante, potrebbero almeno non disamorare ulteriormente su questo fronte il mondo degli insegnanti e, più in genere, il personale della scuola.

Ne richiamo soprattutto i seguenti:

In primis, dilatare i tempi dei percorsi formativi così da includere anche i mesi di ottobre e novembre del prossimo anno scolastico, in coerenza tra l’altro con la Circolare ministeriale di novembre (laddove auspica “una progettualità temporale più estesa …”).

Una seconda proposta potrebbe riguardare la gestione delle 13 ore previste indicativamente (ma in modo diffuso) per l’Unità Formativa (il modulo formativo) più raccomandata (e quindi ‘gettonata’). “Potrebbe risultare utile – suggerisce ad esempio la DS Clara Alemani dell’ANDIS Lombardia – che questo tempo fosse utilizzato per condividere/ lavorare  /ricercare/sperimentare/  dentro le singole scuole, spingendo e favorendo, la partecipazione di gruppi di docenti agli stessi corsi dell’ambito, soprattutto se inerenti a problematiche formative già previste nel PTOF di scuola. Ne potrebbe conseguire una forma di autoformazione interna su alcune aree specifiche, scandita su input offerti da specifiche iniziative dell’ambito e strutturata così da prevedere cambiamenti sensati nelle pratiche professionali. Ci vorrebbe però – aggiunge – dentro le scuole, clima motivante che possa far maturare intese di questo tipo”. Pensiamoci.

Una terza: evitare scontri sulla obbligatorietà della formazione, essendo ancora vigente la norma contrattuale che non la prevede.  E sollecitando, in alternativa ai percorsi proposti a livello di ambito, iniziative di scuola o di articolazioni del Collegio (Consigli di classe o interclasse, dipartimenti, gruppi di progetto …), opportunamente progettate, legate ai PdM o a progetti di scuola inserite nel PTOF.

Una quarta proposta: riservare alle scuole che la richiedano una quota parte delle risorse stanziate; ciò allo scopo di favorire la realizzazione di progetti interni di formazione.

Un’ultima proposta: garantire un ruolo incisivo di coordinamento delle Conferenza di Servizio (Reti di Ambito) dell’offerta formativa e delle modalità di conduzione delle iniziative.

La prospettiva. Superare ambiguità e criticità dell’impianto del PNF

Andrebbero sciolte però, in un discorso di prospettiva ravvicinata (a.s. 2018-2019), alcune ambiguità di fondo del PNF che riguardano il profilo docente a cui tendere nei percorsi di formazione e quindi il modello organizzativo interno delle Istituzioni autonome. E, in modo particolare, il tipo di intreccio tra dimensione soggettiva (storicamente declinata nella Secondaria in termini di autorefenzialità e individualismo) e dimensione collettiva (il team, il gruppo di lavoro, la collegialità).

Si tratta, detta in altri termini, di riconsiderare – dandole eventualmente gambe – una idea (non nuova e approfondita in ricerche e studi) di Collegio docenti come comunità professionale, le cui articolazioni (i Cdc, i Dipartimenti, ecc.) si organizzino come comunità di intenti condivisi e di pratiche comuni.

D’altra parte, di Comunità professionale e di Comunità di Pratiche si parla anche nella L. 107 e nel PNF e non credo (non amo credere) come di “specchietti per le allodole”[1].

Le ambiguità e le criticità dell’impianto generale delineato nel PNF rinviano, d’altra parte, alle ambiguità e le criticità del sistema previsto per la formazione. E spiegano – anche se in termini contradditori – il senso delle scelte fatte nel Piano nazionale per quanto riguarda soprattutto i soggetti protagonisti e i luoghi, ma anche le risorse professionali, gli strumenti e le responsabilità[2].

Formazione sul campo. Ma non solo

Le domande che andrebbero ora soprattutto riproposte sono a mio avviso riconducibili al seguente interrogativo: se e come la formazione sul campo (‘situata’) possa svilupparsi a partire da una diversa collocazione – posizione degli insegnanti nelle scuole che li faccia sentire professionisti responsabili dentro “comunità di pratiche” da promuovere e costruire; e in che termini”.

Bisogna però riconoscere onestamente che, allo stato attuale, mancano, alle nostre scuole, in genere, esperienze forti di riferimento al riguardo e quindi una cultura all’altezza di tale ipotesi.

Autoformazione e formazione sul campo in particolare non sono pratiche frequentate. E la lezione di Shon – sul valore della riflessività, individuale e condivisa, come caratteristica del buon insegnante e come condizione per garantire spessore formativo alle esperienze professionali – tra noi non ha mai avuto molti fan. Anche perché di formazione, soprattutto nella secondaria, se n’è fatta poca e quel poco, non sempre bene.

Riconosciuto questo, occorre richiedersi, conseguentemente: con quali leve e nuovi modelli organizzativi, lavorare ad una prospettiva di questo tipo. E come superare diffidenze diffuse al riguardo.

Le risposte possono essere ovviamente diverse.

Per chi pensa però che l’autonomia scolastica, sia ancora – nonostante i fallimenti di questi anni – la chiave di volta per il miglioramento delle nostre scuole, la direzione di marcia più promettente appare essere in primo luogo quella di rafforzare i luoghi in cui la formazione può svilupparsi più facilmente e proficuamente.

Dove rafforzare significhi, almeno in prima approssimazione:

  • organizzare ambienti di apprendimento professionale integrati con tecnologie digitali, che permettano incontri mirati e collaborazioni esterne,
  • valorizzare risorse professionali interne o delle reti a cui si è collegati e apprezzarne i meriti,
  • sviluppare le competenze giuste per condividere, mettere insieme, discutere, cooperare …
  • prevedere da subito meccanismi contrattuali facilitanti e motivanti …

Questi luoghi – vale la pena insistere sul punto – non possono essere che le nostre scuole (o spazi consimili). Perché in esse soprattutto – se opportunamente organizzate, attrezzate e motivate – si offrono ordinariamente agli insegnanti materia e occasioni da cui partire per ripensare il proprio vissuto professionale, da soli o soprattutto coi propri colleghi di classe o di materia o di progetto.

Ovviamente, nessuno può credere però che si possa costruire un sistema permanente ed efficace con un impianto che si limiti solo a rafforzare i luoghi prossimi della formazione.

Ci sono rischi forti di autoreferenzialità e sviluppo professionale autocentrato e asfittico.

Perché la proposta sia credibile e promettente, il sistema ha bisogno necessariamente, per funzionare al meglio, anche di una pluralità di luoghi di formazione (che facciano sistema), per permettere ai docenti di aprirsi ad altre esperienze e opportunità e sintonizzarsi con le attese più generali del Paese.

Va comunque ancora una volta richiamato – fino a quando non viene messo all’odg dell’Agenda prioritaria del MIUR- che un modello di questo tipo, o che si muova nella stessa direzione, difficilmente potrà produrre risultati soddisfacenti, se non si rende motivante la formazione attraverso dispositivi contrattuali che la colleghino al riconoscimento e alla la valorizzazione delle professionalità. O no?

[1] Un’altra ambiguità va sciolta: riguarda il senso e il ruolo e quindi la collocazione delle associazioni professionali e degli enti accreditati in generale. Ambiguità che va sciolta rafforzando l’idea di sistema formativo di cui essi siano parte attiva e quindi chiamandoli a un impegno organico e coerente e a responsabilità precise (in primo luogo rispetto alla qualità delle figure esperte che li rappresentano nel lavoro – con e nelle scuole – e dei loro contributi formativi).

[2] Di tali ambiguità e criticità si comincia ad avere consapevolezza, più che nelle indicazioni della Circolare MIUR citata, in Tavoli di lavoro come quello promosso dall’USR della Lombardia di lunedì 11 dicembre: dove si è cominciato, per un verso, a mettere in discussione, ad esempio, lo strumento operativo dei Cataloghi, l’impianto organizzativo “piramidale” (risultato prevalente in aree importanti della Regione), o il ricorso ai bandi per la scelta dei formatori; per un altro, a enfatizzare la formazione sul campo e il valore dell’autonomia organizzativa e didattica, oltre che di ricerca.


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Posted 5 Gennaio 2018 by admin in category articoli

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